Putin ama i colpi di scena. Meglio se ammantati di mistero, in linea con la sua cultura “spionistica” di ex funzionario del Kgb. Gode nello spiazzare la felpata (e lenta) diplomazia occidentale. Se ne frega dell’Europa, un po’ come fanno gli Stati Uniti che sfruttano il comodo ombrellino della Nato per dire agli alleati europei che comunque c’è una strategia comune in Medio Oriente. Il che non è vero e questo lo sa e lo sfrutta benissimo il Cremlino. Fatto sta che il presidente russo ha costretto il timoroso e blindato Bashar al-Assad a lasciare Damasco per un inatteso ed improvviso summit a Mosca. Dopo di che si è affannato al telefono.

Prima con il re saudita Salman al quale ha raccontato il succo dell’incontro, rassicurandolo sugli eventuali sviluppi politici dei colloqui. Subito dopo, chiamando il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, e riferirgli dei suoi sforzi per convincere Assad a considerare l’ipotesi di un progressivo ma rapido trapasso di potere. Il quadro è complesso. I sunniti arabi e turchi non si fidano delle buone intenzioni espresse da Putin. Chiedono che Assad si ritiri, considerano l’ingerenza russa provocatoria e pericolosa perché Mosca si è schierata a fianco degli sciiti: Iran, Hezbollah, Bagdad. A complicare c’è la presenza in Siria di duemila soldati iraniani, il contingente più numeroso mai schierato da Teheran da quando è cominciata la guerra civile.

Hassan Nasrallah, abile leader di Hezbollah, ha subito intercettato il “contributo”: “Siamo impegnati nella battaglia definitiva e più importante”, ha dichiarato commentando l’offensiva di terra nelle province di Idlib, Hama, Latakia e Aleppo, in modo da poter liberare Damasco dall’assedio dei ribelli e favorire l’avanzata dell’esercito governativo verso Aleppo. Assad deve tutto ciò a Mosca. Per questo è stato costretto ad accettare l’invito (o l’ordine, il che non cambia la sostanza delle cose) di Putin. Erano più di quattro anni che il presidente siriano non si muoveva dalla sua capitale. Considerato reietto dalla stragrande maggioranza dei Paesi occidentali, disprezzato dai vicini mediorientali, stretto d’assedio dai ribelli, Assad si è trovato prigioniero del suo stesso regime. Putin gli sta offrendo una soluzione per uscirne. Assad teme di finire male. Ma non ha alternative. Deve accettare la mediazione russa. Per questo, con lui c’erano al Cremlino anche i capi del regime. Del resto, il provvidenziale aiuto putiniano è stato come una indispensabile boccata di ossigeno.

Mosca è tradizionale alleata degli Assad dal 1971, quando a governare la Siria era Hafez al-Aassad, padre di Bashar. Gli studenti siriani frequentavano l’università Lumumba di Mosca e gli atenei che garantivano la specializzazione delle professioni più necessarie per lo sviluppo del paese. In cambio, Damasco concedette l’uso del porto di Tartus, il secondo della Siria, in una zona abitata prevalentemente dalla minoranza alauita, l’etnia religiosa a cui appartengono gli Assad. Putin voleva recuperare la perduta influenza nella regione e tutelare gli interessi russi (basi militari, energia, armi), messi in grave pericolo dai successi dei ribelli e dall’avanzata dell’Isis, il Califfato islamico. Ovviamente, Putin sa benissimo che il regime di Assad è screditato e che prima o poi dovrà lasciare il potere. Ecco, di questo ha parlato con Assad martedì sera.

Gli ha spiegato che la fase di transizione può dirsi già cominciata: e che bisognava concordare – con la garanzia e la mediazione politica di Mosca – la formazione di un nuovo governo in cui fossero rappresentate le più importanti fazioni politiche siriane. Beninteso, quelle che accettavano la Russia quale alleato di Damasco. In questa ottica meglio si comprende l’azione progressiva di Mosca che ha accentuato la propria presenza nel Mediterraneo e in Siria via via che la situazione attorno a Damasco si faceva più seria. Nello stesso tempo, ha iniziato a sviluppare un’aggressiva strategia “obliqua” in Medio Oriente: non solo mirata a consolidare il caposaldo siriano (costringendo Assad a negoziare per la transizione di regime, sotto la regia russa), ma a contrastare palesemente la scelta occidentale di appoggiare i ribelli e di contrastare l’Isis.

Per rafforzare Damasco, i raid aerei russi hanno colpito le formazioni dei nemici democratici di Assad e del suo esercito, trascurando quelle della più importante organizzazione jihadista. Per questo ha stretto con Teheran ed Hezbollah accordi di carattere tattico, destinati, secondo il Financial Times, a durare poco. Dietro, è il timore di Washington, c’è la secolare tentazione russa di puntare a Bagdad. Qualche segnale c’è già. Per esempio, la creazione di un “centro d’informazioni”, sorta di superservizio di spionaggio sui combattenti stranieri che militano in Siria e in Iraq. Vi partecipano Iraq, Iran, Siria e Russia (sei “consulenti” per nazione opereranno da una base installata nella Zona Verde della capitale irachena): da questa cellula di coordinamento dei servizi sono esclusi gli Stati Uniti. Sta qui il vero elemento di rottura degli equilibri geopolitici nella regione: sebbene la presenza militare russa in Iraq sia ancora piuttosto limitata, cresce in misura esponenziale il rapporto fra Bagdad e Mosca a detrimento degli Usa.

In Medio Oriente il ruolo della Russia è sempre più definito, quale antagonista dell’Occidente. Putin ha sfruttato gli errori di Washington, il balbettìo e le incertezze (o divisioni, chiamatele come volete) dei partner Nato. In definitiva, ma questa non è una novità, Putin vuole dimostrare la caratura da Grande Potenza della Russia e la necessità che Washington l’ammetta. Quanto all’Isis, Putin è chiaro: i conti saranno regolati dopo aver risolto il dopo Assad. In verità, ciò che Mosca teme è che, disinnescando la bomba Califfato, i duemila – diventati quattromila nelle ultime ore, a sentire l’allarmato presidente russo – combattenti caucasici tornino a casa. E continuino la loro guerra santa contro il nemico ortodosso. Mosca teme per davvero un secondo fronte, stavolta “interno”. Giusto il 7 ottobre scorso sono stati inviati elicotteri da combattimento per rinforzare la 201esima base situata in Tagikistan, la più importante fuori dai suoi confini, a poche decine di chilometri dalla frontiera afgana, ed essere pronta a contrastare l’infiltrazione di islamisti radicali, favoriti dall’avanzata delle forze talibane: “La situazione si è degradata da quando la maggior parte dei contingenti militari stranieri hanno lasciato l’Afganistan”. Anzi, per Putin, la minaccia di infiltrazioni di gruppi terroristi ed estremisti “è più inquietante di quella del sedicente Stato islamico…”. L’Afganistan evoca ricordi dolorosi, il disastro di una guerra persa malamente (con 15mila vittime). In Siria, per ora, si contano tre morti. L’esercito russo nega. Come in Ucraina, è probabile si tratti di “volontari”. Aspettiamo notizie dal web russo.

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