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di Monica Rota*

La disciplina del licenziamento del dipendente in caso di assenze per malattia è contenuta nell’art. 2110 del codice civile.

Questa norma stabilisce – in un modo che almeno fino ad oggi è risultato oggettivo e insindacabile – il periodo in cui vige il diritto alla conservazione del posto di lavoro (c.d. periodo di comporto) e l’impossibilità di licenziare in ragione della malattia. E lo stabilisce attraverso il richiamo alle specifiche disposizioni contenute nei contratti collettivi, che fissano il tetto massimo di assenze.

Oltre tale limite il lavoratore è immediatamente licenziabile, senza che il datore di lavoro debba fornire alcuna ulteriore ragione o prova: è sufficiente elencare nella lettera di licenziamento i giorni di assenza e la durata complessiva della stessa.

Queste sicurezze paiono tuttavia essersi incrinate dopo la sentenza della Corte di Cassazione n. 18678 del 2014, seguita da successivi e recenti provvedimenti del Tribunale di Milano, che stanno aprendo un vivace dibattito sul tema delle assenze per malattia e del licenziamento per scarso rendimento (Trib. Milano, ordinanze n. 1341, del 19 gennaio 2015 e n. 26212, del 19 settembre 2015).

Più precisamente la Corte di Cassazione, nella sentenza richiamata, ha affermato la legittimità del licenziamento di un dipendente, intimato in ragione di ripetute assenze “agganciate” ai giorni di riposo e comunicate all’ultimo momento (senza superamento del periodo di comporto), in quanto – a detta della Corte – avrebbero determinato scarso rendimento ed una prestazione lavorativa non proficuamente utilizzabile per il datore di lavoro, incidendo negativamente sulla produzione aziendale.

La prima delle succitate ordinanze del Tribunale di Milano ha richiamato la sentenza della Cassazione e, sancendo che il numero dei giorni di assenza sarebbero stati idonei a giustificare “l’interruzione, per ragioni oggettive, di qualsivoglia rapporto di lavoro”, si spinge a sostenere che in ragione dell’attività svolta dalla società vi fosse ancor più la “necessità di poter confidare, con ragionevole continuità temporale, sulla presenza quotidiana dei singoli addetti, pena la scopertura di alcuni dei servizi resi”.

Stando a questi “principi”, dunque, un lavoratore dovrebbe cercare di contenere i giorni di malattia in ragione dell’ipotetico e rilevante disservizio creato in azienda? E pregiudicare il proprio diritto a curarsi e la propria salute? Ma la norma non mirava a tutelare (e contemperare) gli interessi in gioco?

Appare poi estremamente pericoloso il passaggio dell’ordinanza che si riferisce al tipo di attività svolta da una società, poiché introduce un livello di discrezionalità assolutamente inaccettabile, in ragione del quale i livelli di “tolleranza” sarebbero diversi a seconda dell’attività imprenditoriale svolta e, aggiungerei, della capacità organizzativa aziendale di sostituire il dipendente momentaneamente assente.

Invece l’unico dato da accertare è (o dovrebbe continuare ad essere) il seguente: o esiste uno stato di malattia certificato, e quindi vi è un diritto alla salute che deve essere tutelato entro i limiti che abbiamo detto, o non esiste. E’ scontato infatti che occorra partire dal presupposto della sussistenza e veridicità dello stato di malattia certificato, anche perché, se così non fosse, il datore di lavoro avrebbe comunque altri strumenti di accertamento (visite di controllo, ecc.).

La seconda ordinanza del Tribunale di Milano ha invece accolto il ricorso del lavoratore licenziato, senza tuttavia disporne la reintegra (stabilendo soltanto il pagamento di un’indennità risarcitoria), avendo ritenuto la non manifesta insussistenza dello scarso rendimento, sulla scorta della seguente considerazione: la società avrebbe dimostrato che l’elevato numero di assenze e le modalità di fruizione delle stesse avrebbero generato un impatto negativo per l’organizzazione aziendale.

Nel caso di specie il lavoratore aveva effettuato numerose assenze (sempre senza superare il periodo di comporto) e tali assenze avevano generato difficoltà a livello organizzativo (ma qualunque assenza genera difficoltà in azienda, per la necessità di sostituire il dipendente o per una diversa distribuzione del carico di lavoro sugli altri dipendenti!).

L’incertezza che contraddistingue tali pronunce è evidente e quindi rimangono sul tavolo le seguenti domande: quante sono le assenze per malattia che possono produrre un disagio organizzativo? A seconda dell’attività svolta dalla società è possibile alzare o diminuire il limite della “tolleranza” del datore di lavoro? Quando può dirsi non più proficuamente utilizzabile una prestazione e quindi rendere legittimo un licenziamento per scarso rendimento?

A mio avviso le risposte non possono che risultare totalmente arbitrarie con conseguente scardinamento di principi fondamentali, anche garantiti costituzionalmente, e confliggendo apertamente con il principio fondamentale della certezza del diritto.

A chiusura si segnala che la Corte di Cassazione, in un recentissimo intervento del settembre 2015, ha chiarito che mentre lo scarso rendimento è caratterizzato da colpa del lavoratore, non altrettanto può dirsi per le assenze dovute a malattia, e quasi a voler rimettere ordine su un tema tanto delicato, ha statuito: “E poiché è stato intimato per scarso rendimento dovuto essenzialmente all’elevato numero di assenze, ma non tali da esaurire il periodo di comporto, il recesso in oggetto si rivela ingiustificato” .

L’auspicio è che tale “ripensamento” riporti il tema della tutela del lavoratore assente per malattia nel solco tracciato da una giurisprudenza più che trentennale e arrivi definitivamente a contrastare l’interpretazione che Confindustria vorrebbe far passare su situazioni di questo tipo relativamente ai rapporti di lavoro in era Jobs Act. Si segnala peraltro che alcune aziende hanno introdotto il criterio numerico delle assenze/presenze per valutare positivamente/negativamente l’operato dei dipendenti (dichiarando più o meno performante la prestazione), facendo rientrare nel computo, pertanto, anche criteri discriminatori quali quelli legati ad assenze per maternità e paternità, per malattia, permessi ex L. n. 104/92 o permessi sindacali.

*Avvocato Giuslavorista, socia AgiGI (Associazione Giuslavoristi Italiani). Esercito la professione a Milano, collaboro con un sindacato autonomo del settore assicurativo e con i sindacati confederali. Ho collaborato con la Consigliera Provinciale di Parità e ora con la Consigliera Regionale di Parità.

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