Mi sono sempre domandato se la pessima gestione della Questione Meridionale da parte dei governi nazionali fosse frutto più di colposa insipienza o di consapevole colonialismo. Historia magistra… A farsi un’idea molto chiara su come si siano svolti gli eventi nel Mezzogiorno, fino alla maturazione della “Quistione”, aiuta moltissimo il “Breve lineamento della Questione Meridionale”, scritto negli anni ’40 da Antonio Lucarelli, storico di Acquaviva delle Fonti, collaboratore di Rosselli e Nenni.

Il burrascoso percorso dell’Unità viene delineato con lucidità ed equidistanza; emerge la disillusione di quanti al Sud sperarono nella rimozione garibaldina delle “iniquità sociali”, invano. Così come “ebbero ben presto a ricredersi le classi abbienti del Sud, quando si videro rovesciar sulle terga una valanga di nuovi o rincruditi balzelli […] fra i più vessatori sistemi di percezione fiscale”.

A promesse non mantenute, fiscalità repressiva e problemi sociali preesistenti “si aggiunsero i gravi errori di nuovi dirigenti, […] la discesa di un fitto stuolo di burocrati piemontesi” che, non conoscendo affatto problemi, inclinazioni e caratteristiche delle popolazioni locali “disseminarono per ogni dove rancori ed ostilità”. Scaturiva il brigantaggio, quella “guerra civile” che, come riporta Lucarelli, richiese l’intervento di 120mila soldati, lasciando migliaia di morti sul campo e prigionieri.

Ed ecco le due Italie, come si disse più tardi, fra loro divergenti e più che mai disunite nella forzata unità”. Furono, come vedremo, le scelte di dirigenti e ministri miopi e rigidi a creare un divario che, nel 1860, si sarebbe potuto e dovuto sanare in breve tempo. “I ministri che dopo Cavour furono assunti al governo, non ebbero una chiara percezione di codeste insanabili disparità ed emisero una serie di uniformi provvedimenti, i quali esacerbarono le iniziali differenze piuttosto che attenuarle con sagace azione discriminatrice”. Proprio così. Non capirono e preferirono ottusa intransigenza. O forse altro.

Vediamo cosa combinarono, insieme al chiarissimo Lucarelli: la Legge Bastogi del 1861 tolse al Mezzogiorno una delle poche cose a posto: l’erario in buonissima salute. Mentre, “Intorno al 1859, oltre all’annuo disavanzo di circa 50 milioni, pesava sul Piemonte un debito pubblico di circa 640 milioni, quattro volte superiore, ed anche più, alle obbligazioni contratte dal Regno di Napoli”, l’unificazione del debito, “accolta volentieri in quei giorni di patriottico entusiasmo” comportò un grande onere per il Sud ma “a giudizio di esperti finanzieri, traeva il Regno sardo dalle minacce della bancarotta”. Infine, la Perequazione dei tributi. Mai viste tante tasse al Sud.

E poi, la vendita dei beni demaniali ed ecclesiastici, che finì per cristallizzare ulteriormente l’assetto sociale del Sud, parzialmente feudale. Alla grande quantità di moneta circolante nel regno napoletano (Lucarelli parla di 340 milioni di lire, ricchezza statica, non dinamica come altrove), la vendita dei beni demaniali aggiunse nelle casse nazionali altri 600 milioni di lire. I galantuomini del Sud, tratteggiati bene dall’autore, che preferivano la rendita fondiaria alle fortunose vicissitudini dell’industria,  se li accaparrarono senza esitazione, finendo per esser gravati di tasse e oneri.

Che fine fecero quei soldi? Ce lo dice Lucarelli “ove poi trasmigrasse l’enorme ricchezza, è facile intendere. […] il numerario fu attratto verso il Piemonte, la Lombardia e la Luguria, ove si procedeva con intenso fervore a diversi lavori pubblici, canali, dighe, bonifiche, trafori, porti, arsenali, caserme, fortificazioni, e altre opere civili e strategiche”.

Un drenaggio inesorabile. Un vero colpo di grazia, amplificato dalla storica differenza di humus sociale tra Nord e Sud.

Lucarelli spiega le esigenze protezionistiche dei capitalisti esordienti del Settentrione che non reggevano al confronto col mercato estero. Lucarelli spiega bene le conseguenze drammatiche di questa scelta, fatta a più riprese dal 1878 al 1921, per cui  “noi meridionali fummo obbligati a comprare dai metallurgici e cotonieri del Nord, a prezzi elevati, quelle produzioni che avremmo potuto importare dall’estero a vantaggiose condizioni”. Le  ovvie ritorsioni delle nazioni estere fecero il resto, colpendo le esportazioni agricole del Sud. “Fu il trionfo e la ricchezza dei siderurgici, dei cotonieri, dei saccariferi del Nord; e la disfatta e la miseria degli agricoltori del Sud. Così le due Italie apparivano ognora più divise e contrapposte, quasi due popoli in pieno antagonismo fra loro.” Non miglior destino per i piccoli industriali del Sud.

Dalle pagine di Lucarelli emerge nettamente come queste politiche scellerate fecero sì che “nell’Italia bassa borghesi e proletari piombassero in quell’apatia, in quel malaugurato languore, che tuttora serpeggia fra le nostre genti. E poiché alla grande povertà si accompagna la grande corruttela morale e politica, i Ministeri che si avvicendarono al governo dal 1876 ai nostri giorni, liberali o conservatori, o socialisteggianti poteron qui esplicare impunemente la loro azione sovvertritrice, servendosi del Mezzogiorno non solo come terra di conquista economica, ma anche come terra di conquista elettorale a vantaggio dei plutocrati del Nord non di rado in combutta coi baroni del Sud sopravvissuti alle leggi eversive della feudalità”.

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