Dna nasce nel 1998, come è cambiata – al netto delle difficoltà economiche – la ricettività del pubblico e la disponibilità delle istituzioni a interagire con un meccanismo a loro sconosciuto o quasi?
Per quanto riguarda il rapporto con le istituzioni il discorso varia a seconda dei casi. Ci sono quelle giunte che ti danno più retta e quelle che se ne fregano. E’ un vero e proprio saliscendi. Rispetto alla ricettività posso dirti che cambia continuamente.

In che modo, rispetto a quello che voi siete soliti proporre?
I fattori sono molteplici. Tutto nasce dalle proposte che ci sono in giro. In questi vent’anni mi è capitato di vedere musicisti – anche di fama – che avessero il fiato un po’ corto, senza che questo implicasse una disaffezione del pubblico. E’ tutto molto legato al fattore della moda. E come ogni moda dopo un po’ si sgonfia. Il rock ricicla cose già fatte, quindi si creano queste sacche di ascoltatori che si rimodellano. Non diversamente dal vintage, non puoi rivendere sempre lo stesso oggetto sperando appaia sempre nuovo. Dopo di che la mia impressione è che la musica che proponiamo noi come Dna Concerti è legata spesso a un fattore di riscoperta del già sentito secondo nuovi stilemi e narrative.

Il roster di Dna è il più ricco e variegato che ci sia in Italia. Come è cambiato il tuo lavoro da quando Dna è nata fino ad ora? C’è stata una evoluzione del ruolo del promoter o le dinamiche sono essenzialmente le stesse?
Le dinamiche all’incirca sono le stesse. E’ cambiato significativamente il ruolo delle istituzioni pubbliche che, fino a 10 anni fa, sovvenzionavano ampiamente le attività concertistiche estive. Ora non è più così, c’è da confrontarsi col privato. E secondo me, al netto dell’autolesionismo, è meglio così. Le ruotine a un certo punto alla bicicletta bisogna toglierle. Questo aiuta a scremare tra chi ce la fa con le proprie gambe e chi no.

Qui si inserisce però un altro discorso: in Italia questo meccanismo sostitutivo del privato rispetto al settore pubblico non è scattato.
Esatto. Il discorso che senti sempre fare dagli sponsor – e non fa una piega – è: con molti meno soldi mi compro una pagina sul Corriere e arrivo a dieci volte le persone che tu puoi mettermi davanti ad un palco. E’ chiaro quindi che, visti i numeri esigui di pubblico, le famose rotelline finisci per rimpiangerle (sorride, ndr).

Quanto è difficile interagire con le agenzie straniere e spiegare le nostre abitudini?
Ho smesso di spiegarglielo. Di recente ho avuto una conversazione con un promoter che chiedeva un artista di spessore offrendo un cachet al limite del ridicolo. Se il Brescia chiede al procuratore di Messi quale è il suo ingaggio, non può stupirsi di quanto il calciatore guadagni né lamentarsi di non poterlo ingaggiare. In Italia non riusciamo a capirlo, né a fare il primo step per superare questo problema: prendere coscienza che siamo noi l’eccezione, non gli altri. Purtroppo siamo cocciuti e ci sentiamo al centro del mondo. Non è così.

In tutto questo l’Italia è il luogo dove non esistono i festival ma le rassegne. Lo stesso Siren va in quella direzione, con percorsi legati all’enogastronomia e al ruolo del mare. E’ l’unica strada percorribile?
Noi in estate scomponiamo i festival europei. Quanti artisti suonano a Glastonbury? Quattrocento? Bene, noi organizziamo quattrocento date singole. E di queste, due terzi vanno male. Il che significa perderci dei soldi. Con questi si potrebbe organizzare un festival di dimensioni medie, però si sceglie di non farlo e giocarsela in maniera diversa. Questo è un errore storico. Abbiamo una lungimiranza imprenditoriale nulla. Col Siren abbiamo fatto un discorso di costruzione di senso che va oltre la musica. Questa formula però che premia un qualcosa che va oltre il semplice aspetto musicale e mi pare che possa essere più sostenibile.

Che novità ci saranno quest’anno sul piano organizzativo e dell’offerta?
Quest’anno avremo una parte diurna che si svolgerà anche sul mare. Rispetto al futuro la cosa che più mi auguro è avere il maggior numero di persone che vengono da fuori.

Avete aspettative diverse rispetto all’anno scorso?
In tutta onestà non c’aspettiamo grossi movimenti dall’estero. Questo perché spiegare un qualcosa come Siren è un lavoro di ampio respiro e ci vuole tempo. Festival come il Sonar sono diventati quello che sono grazie al tempo. Prima di mettere i fiori sui balconi di un palazzo devi costruire le fondamenta. Gli italiani che comprano un biglietto sono molti meno di una ideale soglia che ci permetta che il tutto sia sostenibile. Il pubblico straniero è invece strategico, soprattutto di quelle zone dove il mare non c’è o comunque fa freddo.Uno dei segreti del successo del Primavera è la migrazione di quegli appassionati che d’estate preferiscono vedersi molti gruppi in un contesto caldo e piacevole.

Cosa ti auguri per l’Italia dei concerti per i prossimi anni?
Che riusciamo finalmente ad avere una dimensione europea. E’ come se giocassimo sempre solo le partite di qualificazione di un torneo senza qualificarci mai. Tutto ciò per me passa dalla capacità di organizzare dei festival degni di tal nome. Solo così possiamo uscire dalla palude in cui ci troviamo.

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