Mi siedo alla mia scrivania. Sono le ore 13.37. Diletta è con la sua tata che le sta dando da mangiare.

Ieri alle 15,30 le sorelle di Diletta giocavano e lei guardava la Tv. Sento una specie di singhiozzo. Ormai il mio livello di allerta è alle stelle e lancio la voce: chi è che ha il singhiozzo? Intanto con una falcata mi lancio in camera di Diletta. Le altre mie bambine dietro di me. Diletta è in piena crisi convulsiva. Sta soffocando. Non scendo nei particolari che sarebbero la forzatura del dolore. Perché non è il dolore che voglio raccontare. Vorrei invece trasmettervi uno squarcio di vita e condividere qualche riflessione: mentre attuavo la procedura necessaria in questi momenti, ho colto in un momento la voce delle mie bambine che si consolavano tra loro. Otto e undici anni. Mi ha colpito molto una frase: “Noi abbiamo paura è normale, ma la vita è anche dolore e se noi ora abbiamo paura tra poco ne avremo meno”.

Non ho potuto interrompere il monitoraggio a Diletta. Loro hanno chiamato il resto della famiglia e mio fratello con mia cognata, i loro giovani e allegri zii, in un attimo le hanno strappate a quei momenti rimanendo con loro fino all’ora di cena.

In serata, ho creduto che fosse necessario un momento di amore, di dialogo, di riconoscenza verso la loro bravura e così le ho chiamate e ci siamo messe sedute come gli indiani su uno dei loro letti.

Non appena ho iniziato a complimentarmi e a spiegare loro che ho paura anche io e che queste emozioni sono sane, umane, giuste… Mi hanno interrotto e mi hanno detto che io ero stata bravissima e molto forte. Mi ha stupito questo commento. Loro due mi hanno osservata, bonariamente giudicata. Stranissima la sensazione che ho provata: mi sono sentita utile anche per loro e questo è un grandissimo orgoglio.

Noi mamme con figli disabili viviamo spesso nel senso di colpa, che è poi a volte molto oggettivo, di non riuscire a garantire vite eque a figli diversi.

Le esigenze, gli orari, i ritmi, la condizione di salute, i parametri esterni ai quali non si pensa (umidità, pollini, luci, accessibilità, ecc.) rendono impossibile una organizzazione omogenea e la fine di molte mamme è quella di diventare scatole cinesi alla continua ricerca della scatola che da dentro l’altra indirizza la nuova idea per tutti. Nel perenne tentativo di supplire, di non diversificare , di voler essere in grado di fare tutto.

Certo che questo in un mondo che considera la disabilità una malattia da istituzionalizzare non è affatto semplice. Le strade sono inaccessibili, le metro, i bus, le piscine, il mare… si deve fare una mappa da caccia al tesoro e pregare che le info siano corrette.

Poi i tempi certo impongono una vita molto regolare, che se da un lato offre regole e stimoli alla fantasia dall’altro limita anche momenti di occasionale puro divertimento.

Ultimamente la notte dormo due o tre ore e quindi ho avuto molto tempo per pensare e riflettere.

Mi stupisco però che la rabbia arriva, mi saluta e se va. Il mio pensiero corre sui social dove nel giro delle amicizie scopro altre mamme che in ombra scorrono le notizie per tenersi sveglie. Qualche chat di chiacchiere più o meno varie nelle ore più improbabili della notte mi hanno resa meno sola.

Pian piano ho visto sorgere l’alba, è quello il punto zero in cui la mia funzione care giver notturno si mescola con la mamma allegra attiva che di giorno corre come una pallina da ping pong mentre ringrazia l’immenso assente aiuto che lo Stato offre alle famiglie durante l’estate. Ma diciamolo piano piano o apriranno con milioni di euro l’ennesimo ghetto dove parcheggiare i fagotti ingombranti.

In silenzio, mi raccomando, o qualcuno dirà che usiamo troppo i social, o che siamo poco lucide (il che può anche dopo tanta veglia), e un po’ nevrotiche con tutti questi diritti che andiamo reclamando. In effetti, cosa può pensare uno Stato malsano? Hanno ancora energie! Affondiamo ancora….

Questa è la sensazione perché tra medici di base non sempre all’altezza, specialisti da cercare con il cane da tartufi, farmaci che si provano e si pagano e si riprovano e si ripagano, occasioni di svago a pagamento, ecc… poi hai l’Isee che ti ricorda quanto sei ricca! Ma se non bastasse c’è l’Inps che deve controllare se a tua figlia con una trapianto di cervello l’hanno guarita, e la voragine di soldi che spendi , non si capisce perché non è mai deducibile. Hai preso le vitamine? Hai comprato un indumento in lino per non farla incollare alla sedia? O hai speso di più per il costume per garantire l’igiene sua e del prossimo? E chi se ne importa!

Allora mi domando chi sia davvero il mostro da combattere, perché per quanto io mi sforzi, continuo a vivere sulla pelle una conclusione di una banalità sconcertante: se intorno a noi ci fosse il fondamento della cosa pubblica per tutti, il 70-80% della mia fatica sarebbe azzerato e il potere di far crescere tre sorelle come meritano sarebbe qualcosa di acquisito e perfettibile, non certo, come oggi, la ricerca della lampada di Aladino per realizzare il desiderio assurdo di un diritto realmente non riconosciuto: quello di esistere.

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