Qualcuno comincia a sudare freddo. Il prezzo del petrolio in rapida discesa è un vantaggio per molti ma per altri può diventare un grosso guaio. In prima linea ci sono diverse società statunitensi specializzate nell’estrazione dello shale oil, cioè il greggio contenuto in sabbie bituminose o rocce argillose. E’ un processo non nuovo ma che negli ultimi anni è esploso soprattutto negli Usa, assicurando al Paese una sostanziale autonomia energetica e una produzione che si avvicina ormai ai 9 milioni di barili al giorno. Le riserve nel sottosuolo americano vengono stimate in quasi 60 miliardi di barili, ma oltre a creare importanti problemi ambientali lo sfruttamento dello shale oil è anche costoso. Le stime sono diverse o non sempre concordi, ma si può dire che indicativamente l’attività è certamente redditizia finché il prezzo del petrolio – quello preso a riferimento è il brent, quello del mare del Nord utilizzato come parametro per fissare i prezzi di due terzi degli scambi globali – rimane sopra gli 80 dollari al barile. Cioè il valore attuale. La soglia “del dolore”, quella dove iniziano i guai per molti dei produttori di shale oil, è tra i 70 e i 60 dollari al barile.

Negli ultimi anni sul settore sono piovuti investimenti per centinaia di miliardi di dollari. Quel che più conta le società coinvolte li hanno finanziati indebitandosi abbondantemente. I mercati, grazie anche alle politiche ultra espansive della banca centrale americana, erano invasi di capitali in cerca di rendimenti, i tassi erano (e sono) bassi e, soprattutto, negli ultimi anni il divario tra le remunerazioni pagate dalle obbligazioni ad alto rischio e quelle più sicure è stato particolarmente sottile. Detto in altri termini, nonostante comprare titoli di queste aziende fosse piuttosto rischioso i rendimenti pagati agli investitori erano molto bassi. Emettere obbligazioni e indebitarsi per avviare produzioni era insomma un affare. Secondo i dati dell’agenzia di rating Fitch, dal 2009 l’emissione di strumenti finanziari ad alto rendimento da parte di società energetiche è cresciuta del 148%, con un valore dei titoli in circolazione che ormai supera i 210 miliardi di dollari. Stando ai dati più recenti il rapporto tra debito e margine operativo lordo (la differenza tra i ricavi di un’azienda e i costi che sostiene per produrre) nell’industria dello shale oil supera quota 3, a fronti di valori dell’industria petrolifera che raramente vanno oltre il 2. Un rapporto superiore a 3 è considerato una prima “spia rossa” sulla capacità di un’azienda di far fronte a tutti i suoi debiti.

Sarebbe comunque sbagliato affermare che il settore è a rischio crac. Sia perché ci sono aziende finanziariamente più solide, sia perché i costi estrattivi variano da campo a campo e stanno progressivamente diminuendo. Poche settimane fa il dipartimento statunitense dell’energia si è premurato di far sapere che solo il 4% dei campi di shale oil in Texas, North Dakota e altri Stati ha necessità che il petrolio sia sopra gli 80 dollari per ripagare gli investimenti sostenuti per la produzione. Un big del settore come Eog resources ha fatto sapere che riuscirebbe a estrarre petrolio dai suoi campi in Texas facendo profitti anche con il barile a 40 dollari.

Per ora i bilanci trimestrali delle società del settore non presentano cifre preoccupanti, ma i dati si fermano a settembre, quando la discesa dei prezzi del greggio era appena iniziata, e le eventuali magagne inizieranno a emergere con i numeri relativi all’ultima parte dell’anno. Stretti tra interessi da pagare – in aumento – e prezzi del petrolio in calo, rimanere in utile può diventare complicato. Gli operatori cercano di sminuire il problema, ma sui mercati qualche campanello di allarme ha già cominciato a suonare. Lo scorso 16 ottobre, in concomitanza con la discesa del greggio sotto gli 80 dollari al barile, il rendimento di un bond da 450 milioni con scadenza 2020 emesso da Sand Ridge è balzato al 10,2% a fronte di un valore medio del comparto delle obbligazioni societarie ad alto rendimento del 6,4%. La Sand Ridge è una società attiva anche nello shale oil, vale in Borsa poco meno di due miliardi di dollari e negli ultimi tre mesi ha visto il valore dei suoi titoli calare del 30%. Anche un’altra società del settore come Magnum Hunter ha accusato a Wall Street una flessione simile. La Magnum capitalizza circa 900 milioni di dollari e ha debiti a lungo termine per una cifra analoga, su cui paga un interesse del 10%: ogni anno 80 milioni di dollari vanno nelle tasche dei suoi creditori. Pochi giorni fa il gruppo ha comunicato un aumento dei ricavi inferiore rispetto alle attese e lo scorso ottobre, dovendo rifinanziare un debito in scadenza per 340 milioni, ha pagato il 7,5% in più rispetto all’indice Libor a fronte della maggiorazione del 5% del prestito originario. Molto focalizzata nello shale oil è anche la Sanchez Energy, che nei tre mesi ha accusato una flessione del titolo di oltre il 45%. Con un petrolio a 80 dollari al barile la società rimane profittevole, sotto questa soglia potrebbero iniziare i problemi.

Come sempre quando si tocca l’argomento petrolio, fioccano teorie geopolitiche più o meno attendibili. Secondo alcuni osservatori ci sarebbe un vero e proprio disegno strategico dell’Arabia Saudita, che starebbe di proposito spingendo i prezzi al ribasso per far andare fuori mercato le produzioni americane. Altri osservatori ritengono questa visione poco plausibile poiché il costo di questa strategia potrebbe essere sopportabile per Riyad ma troppo doloroso per molti altri membri dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (Opec). E’ quanto ha sostenuto per esempio, in un’intervista a Bloomberg, Archie Dunham, presidente del gruppo energetico Chesapeake (-12% in Borsa negli ultimi tre mesi). Secondo Dunham l’Arabia “sta facendo una grande scommessa”. “Se riusciranno a far scendere il barile a 60 o 70 dollari, allora gli Usa rallenteranno. Ma le conseguenze per altri Paesi Opec saranno catastrofiche”.

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