Licenziata. Lo sarà dal 31 marzo ognuna delle 58 ex operaie dell’Omsa. Sono le ultime delle 320 lavoratrici a dover essere ancora ricollocate. Nel loro orizzonte lavorativo, ad oggi, dopo 5 anni di cassa integrazione ordinaria, straordinaria e in deroga, non vi è nulla. Dal 1° aprile, lettera di licenziamento alla mano, sfileranno in una lenta processione dal centro per l’impiego al patronato, per richiedere l’indennità di mobilità, 700-800 euro circa al mese.

Per queste 58 donne il passaggio dello stabilimento di via Pana all’imprenditore forlivese Franco Tartagni di Atl Group e la conseguente riconversione produttiva, da calzificio ad impresa produttrice di divani, è la storia di un’opportunità mancata. “Cinque anni di speranze tramutate in polvere” così, su Facebook, riassume la lunga vertenza Clara Zacchini, una di quella ventina di operaie agguerrite, che ci ha messo la faccia ed è scesa per strada, da subito, a difendere il proprio lavoro, in seguito alla decisione del patron di Golden Lady Nerino Grassi di delocalizzare in Serbia.

Una battaglia di uno sparuto gruppo di donne, contro le grandi logiche del mercato contemporaneo, non ha tardato a divenire un fenomeno mediatico, grazie anche all’impegno dei sindacati, grazie a Idilio Galeotti della Cgil prima che dovesse lasciare, a giugno del 2011, l’incarico di coordinatore del comprensorio faentino. Oltre duecento articoli usciti in varie testate giornalistiche, interviste nelle reti televisive, la partecipazione ad Annozero, alla manifestazione “Se non ora quando“, i presidi, gli appelli, le azioni di boicottaggio dei marchi controllati dall’azienda di Castiglione delle Stiviere: tutto questo, assieme a un’azione sinergica con le istituzioni, fino a Roma, ha permesso che la vertenza fosse parzialmente sbloccata in maniera positiva con il subentro dell’Atl. È forse la consapevolezza che la vicenda poteva concludersi in maniera peggiore a mitigare il giudizio su questi 5 anni di passione: sarebbero state molte di più le operaie disoccupate, se l’azienda di Tartagni non ne avesse riassorbite più di 140. Ciò non toglie che i riflettori devono restare accesi sul futuro di tante donne che ancora attendono di recuperare, con il lavoro, una collocazione sociale e quella dignità che con essa va di pari passo.

Inutile però illudersi: il faentino è un territorio che ha accusato la crisi e tante sono le aziende che hanno dovuto alzare bandiera bianca, nel ramo manifatturiero, come in quello dell’artigianato. E allora si è pensato di poter sciogliere il nodo dell’occupazione delle ex operaie Omsa rimaste a casa con l’apertura dell’outlet Le Perle, ma se esso in origine doveva essere il non plus ultra del centro commerciale, ora è una cattedrale nel deserto, realizzata all’interno per il 70% e per l’80% all’esterno.

“Quella delle Perle -racconta Lorenzo Zoli, segretario provinciale Femca Cisl- è una storia martoriata di insuccessi, fughe in avanti, cambi di direzione e di impostazione. Doveva essere in origine un centro polifunzionale del lusso, un punto d’aggregazione che combinasse strutture sportive, ristoranti e molti spazi verdi: un luogo insomma in cui attirare molti turisti, soprattutto i russi danarosi che arrivano all’aeroporto di Rimini. Era la risposta romagnola al “The Mall”, un outlet delle grandissime firme, vicino a Firenze, dove i tour operator portano giapponesi e americani. Poi le cose si sono evolute: la società aeroportuale Aeradria, che gestiva lo scalo riminese, è andata in bancarotta schiacciata da 52 milioni di euro di debiti. Complice anche la crisi, l’idea che c’era dietro alle Perle è stata ripensata. La società lombarda Promos, che si occupava di locare gli spazi interni per le attività di vendita, aveva coperto solo il 40% e non sarebbe partita con meno del 60%. Ecco la spiegazione della sua uscita e del subentrare, con un contratto di leasing pluriennale, dell’anglo-portoghese Soane Sierra”.

“I lavori per terminare l’outlet sono fermi -aggiunge Samuela Meci della Filctem Cgil. Dicevano che entro la fine del 2014 sarebbe stato inaugurato, ma si è trattato solo di una dichiarazione per fare stare zitta l’opinione pubblica e i sindacati. Alla fine dell’anno non apriranno, forse nel 2015. All’origine del ritardo sta il fatto che la reggiana Unieco, impresa partecipata della ditta costruttrice Faenza Erre, è andata in concordato preventivo per non fallire e ora le banche del territorio devono dare l’ok per sbloccare i finanziamenti e finire i lavori. Ciò ha fermato la vendita degli spazi commerciali”.

Dal canto suo il sindaco Pd Giovanni Malpezzi sembra essere più fiducioso nella prospettiva di una soluzione celere all’impasse nella quale si trovano i lavori: “Abbiamo segnali positivi dalle banche -afferma- che devono far ripartire il cantiere. Intanto i due o tre anni di copertura con l’indennità di mobilità, che spettano alle 58 ex dipendenti Omsa, permettono di avere un tempo sufficiente per costruire una opportunità di ripresa”. Per Meci, che è sempre stata a fianco delle operaie (lei stessa ex camice verde), il presente è “un momento in cui bisognerebbe fare delle riflessioni”. Adesso -osserva- ci ritroviamo con 58 persone senza nessun tipo di lavoro, quando da Germano Savorani, ex assessore alle attività economiche del Comune, era stato promesso a tutte che avrebbero avuto un’occupazione. È il momento per fare una valutazione politico-sindacale di quello che è successo: le istituzioni avrebbero dovuto frenare la delocalizzazione e noi, se tornassimo indietro, faremmo ancora di più di quello che abbiamo fatto. Oggi rimane, fisso nella memoria, il fatto che è stata chiusa la più grande fabbrica con lavoratrici donne della provincia di Ravenna”.

Articolo Precedente

Eni, protesta operai Saipem: “Vogliono sostituirci con gli stranieri e delocalizzare”

next
Articolo Successivo

Future Film Festival 2014, rassegna del cinema d’animazione. C’è anche Miyazaki

next