Sono un pessimo viaggiatore, di quelli che da quando partono cominciano a contare i giorni che restano per tornare, a volte le ore. Sono fatto così. Guardo i miei figli nei loro letti, in sottofondo la lavatrice che gira, il riscaldamento ce l’ho, domani è un altro giorno garantito. Sfoglio quel poco che so della Palestina, ma le testimonianze più interessanti arrivano da due narratori eccezionali: Joe Sacco con il suo “Palestina” e Guy Delisle con “Cronache di Gerusalemme”. E già mi vedo i detrattori a dire che son trama da fumetto (affari loro), i reportage di Sacco e Delysle sono documenti straordinari. Quasi dimenticavo “Valzer con Bashir”. Peccato non aver nessuno di questi autori per sentire dalla loro viva voce il racconto. Però conosco Cecilia, il cui diario di viaggio prosegue prestandomi i suoi occhi per farmi (quasi) vedere. (GF)

Giorno 04 Nablus

Filtra la luce dalle persiane, un gallo canta chissà dove, qualcuno in bagno si sta facendo la barba. Zzzic, zzzic, zzzic. Ti alzi, intirizzito dal freddo, controlli i danni del vento alla finestra, sistemi le pesanti coperte sul materasso polveroso, accendi le stufette elettriche, metti tanta acqua sul fuoco per tanto tè alla menta, e mentre tagli il pane caldo, pensi. Hai un po’ di tempo per farlo prima che tutti si sveglino. Pensi a casa, al tuo letto a Milano, a chi in quel letto ti aspetta al ritorno. Non ci pensi quasi mai, qui. Che strano.

”Occhio non vede, pancia non desidera”. Il sesso, già. L’ambiente non ti porta a quella ossessione sottile che permea ogni ora delle tue solite giornate. Non c’è nella pubblicità, negli argomenti, negli sguardi, negli incontri, non c’è: sembrano muoversi ben consci di questo aspetto della vita, ma con una grande differenza. Distinguono fortemente il pubblico dal privato. Non vedo una società oppressiva e barbara, ma una comunità che vive negli spazi condivisi e nelle strade con grande rispetto, silenzio, distanza ed educazione. Proteggono nella dimensione privata delle loro case e dei loro cari ciò che è intimo come ciò che è goliardico, uomini e donne. Sono Liberi e Libere dove sanno che la loro libertà non urta e non limita nessuno. Che poi, liberi…va beh.
Non ci pensano, o forse si, ma lanciamo in aria insieme palloncini su cui scriviamo ciò che è importante per noi, disegniamo fumetti sui freddi pavimenti di una sala da matrimoni chiusa, scriviamo cortometraggi, dividiamo le emozioni nello spazio, costruiamo qualcosa. Quale cosa, chissà. Uomini e donne parliamo senza turni e senza leggi. Ci accompagnano i clacson incessanti dei taxi e l’uomo che vende caffè arabo all’angolo della strada. Tiene in mano una teiera e due tazzine di metallo, e le suona come campanelli. Ding, ding, ding. ‘Chi ne vuole?’ Io.

 Giorno 05 Tulkarem

“L’Unione Europea ha definito Israele l’unica Democrazia del Medio Oriente. Se questo muro, questi rottami, queste macerie, questi rifiuti, questo deserto, questi morti, queste botteghe chiuse, queste case fantasma, questi campi bruciati, se tutto questo è la Democrazia, non la vogliamo. Viviamo in pace tra noi, Musulmani e Cristiani nella stessa terra, e vivremmo in pace anche insieme agli Israeliani. Non c’è nessuna ragione per fare tutto questo, c’è spazio per tutti qui! Questo non si chiama Muro della Separazione. Lo chiamiamo Muro dell’Apartheid. Perché è quello che stiamo affrontando. Siamo così piccoli dallo spazio, e continuiamo a costruire muri dietro muri dietro muri cercando di scrivere su questa terra…che cosa? Gli Israeliani sembrano non cogliere l’ironia devastante di questa situazione: stanno facendo a noi ciò che loro hanno subito in passato. Ma non gliel’abbiamo fatto noi, l’Europa l’ha fatto…Sorry…”.

Ha preso un fiore di geranio dalla pianta, la nostra guida, dicendo che ciò che nasce da questa terra è buono e senza colpe, e me l’ha messo tra i capelli. Tutto era immobile, dentro e fuori di noi. Si poteva a malapena respirare per trattenere il pianto.

Prima di andare, Ali ha detto “potremmo dare tutti insieme la prima spinta al muro, perché un giorno cada“. I ragazzi spingono forte puntando i piedi nel terreno arido, qualcuno tira un calcio ridendo, si fanno le foto insieme accanto alle scritte più forti.

Sono rimasta ferma a guardare. Quel muro mi fa paura, è fatto di pietra e di fucili, di bulldozer e filo spinato, di telecamere e allarmi. È fatto di soldi sporchi e politica malata, di destino e vendetta. È fatto di morte. La puoi toccare la morte?

Ci ho appoggiato la mano sopra, piano. I Palestinesi hanno un simbolo che disegnano ovunque: un bambino di spalle, scalzo e coi vestiti laceri, che guarda il muro. Dicono che quando il muro cadrà, il bambino si girerà e mostrerà il suo viso. Per me, quello sarà il volto di Dio. Se c’è.

Giorno 06 Sebastya

“Chi vuole può unirsi a noi per la manifestazione. Ma lo dovrà fare sotto la propria responsabilità: ci saranno lacrimogeni molto più forti di quelli che conoscete, bruceranno e non riuscirete a respirare. I soldati israeliani possono arrestarvi, possono spararvi. E non vi chiederanno prima se siete Palestinesi o Italiani o Israeliani: spareranno e basta. Date solo nomi falsi e non parlate con nessuno. È pieno di spie qui. Dovremo stare uniti e non fare gli eroi…”

“Io resto qui”.

Non ce l’ho fatta. Ho avuto paura. Ho fatto un passo indietro. Non so bene cosa dire in questo giorno sei, se non che mi vergogno di non essere stata presente di fronte ai soldati, mi vergogno di non averli fatti sentire meno soli di quel che sono tutti i giorni nell’affrontare questa situazione. Scrivo male e non metto in fila i pensieri.

Spero di aiutarli con l’aiuto che posso, con l’aiuto che so: scrivere, recitare con loro, raccontare a più persone possibili quello che ho visto, fare pressioni dove possibile perché chi ha il potere di fermare tutto questo prima o poi lo faccia. Chiudo. Spero che con l’acqua della doccia se ne vada anche un po’ di senso di colpa.

(Continua…)

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