Nel Caucaso non è prevista la presenza di donne in una tavolata conviviale. Solo la buona educazione dei moderni costumi lo consente, ma è percepita come una stravaganza, che ci si permette solo per far piacere agli stranieri. La cosa strana, a prima vista, è che la donna, nelle società caucasiane, è tutt’altro che in posizione subordinata. Sono loro che fanno quasi tutto. Ma i cerimoniali che letteralmente riempiono le occasioni conviviali – attorno a lunghe tavolate ricoperte di cibi, vini, salse, di ogni tipo – sono il concentrato di tutte le storie patriarcali di quei popoli. Momenti nei quali si raccoglie, per custodirla con geloso rigore, tutta la tradizione, nel bene e nel male. Storie, dunque, dove le donne non hanno posto. Ecco perché sono confinate lontano dalla tavola, nella preparazione dei cibi.

In Ossetia le regole sono più strette di ogni altro luogo del Caucaso. La mensa dove ci si siede è, prima di tutto, luogo di preghiera, di raccoglimento, non di baldoria, non di baccano. Poi, dopo avere molto e variamente bevuto, si può parlare di tutto, si può scherzare, gareggiare in eloquenza, o in ricordi, ma dopo lo svago si deve tornare  alla regola. E questo dall’inizio alla fine, che può anche essere lontana ore e ore, nelle quali non è dato restare comodi, perché l’esperienza prevede innumerevoli brindisi con alzate e sedute, anch’esse definite con assoluta puntualità da un cerimoniale che tutti, là, conoscono a memoria. 

A Vladikavkaz sono capitato per la prima volta – dopo parecchie altre – nel bel mezzo delle feste per San Giorgio, il santo patrono del popolo alano. E, in circostanze come queste il regolamento è perfino più rigoroso del solito. Ci sono arrivato come invitato alla conferenza sulla “Via Alanica”: un rilancio in grande stile delle ricerche storico-archeologiche sulle origini del popolo alano, sulla civiltà “kobana”, sulle inestricabili connessioni tra sciti, sarmati, alani; sui rapporti con i popoli iranici, sulla ramificatissima diaspora alana,  che praticamente ha toccato tutta l’Europa, e la costa sud del Mediterraneo, per poi restringersi e ridursi – non senza avere lasciato numerose tracce – nella pur maestosa cornice del Grande Caucaso. Ma non tedierò il lettore con gli scampoli di conoscenza che ho acquisito partecipando al simposio. Franco Cardini, che qui è quasi un nume tutelare, potrebbe dire immensamente di più.

Qui voglio solo raccontare di come si va a tavola in queste contrade. Che è come visitare un mondo a parte, ovvero come penetrare in un passato profondo che, sorprendentemente, è rimasto vivo, nonostante e contro ogni ipotesi globalizzatrice e livellatrice, come quella che è in corso di sperimentazione, in corpore vili,  sui popoli europei.

C’è un capo della tavola. Che non ha bisogno di essere eletto perché è lo starshij, l’anziano, colui che guida. A quanto pare nessuno ha mai dubbi su chi egli debba essere in una data tavolata. A destra e sinistra stanno gli aiutanti di campo, ma lo starshij sarà il padrone assoluto del convivio. Nel senso che egli è il cerimoniere, ma anche nel senso che è lui che introduce l’assemblea al cospetto di Dio. Una specie di sacerdote, talvolta buontempone, tal’altra serio, tal’altra ancora francamente noioso, in perenne preghiera. E il primo brindisi e proprio a Colui-che-tutto-vede. Tutti in piedi. Portano in tavola tre focacce (che sembrano pizze), la prima, sopra le altre due, è coperta di formaggio fuso, sotto c’è quella di patate, ancora più sotto c’è quella ripiena di carne o di cavolo. Lo starshij le dispone in modo tale che siano sfalsate, cioè che si veda che sono tre.  E’ il Supremo che deve vedere che le focacce sono tre. E c’è chi teorizza che questa epifania simboleggi non solo i tre elementi del creato, cielo, terra, acqua, ma che la torta primaria sia il simbolo della società primigenia, pane, latte, formaggio, il cibo dei cacciatori. Vai a scandagliare tutti i significati. E’ cosa impossibile, ma è ciò che nutre questa convivialità.

Il secondo brindisi, anche questo obbligatorio, è a San Giorgio, il protettore cui ci si affida fiduciosi e grati, che tutto aggiusta, che tutto ricompone per il meglio. Lui sa che le focacce sono tre, anche senza vederle. Si ha l’impressione che tutti gli starshij abbiano un mandato a un rapporto con lui, specificamente. La cosa più curiosa è che questa tradizione è passata indenne attraverso settant’anni di comunismo sovietico,  ufficialmente molto ateo. Ma i brindisi erano gli stessi, il cerimoniale anche, e non c’era dirigente politico locale, ovviamente comunista, che potesse esimersi – essendo per definizione (e per Costituzione) “colui che guidava” – dal pronunciare il primo e il secondo brindisi della tavolata.

Poiché penso che queste cose, quando accadono con tale sistematicità, abbiano significati tutt’altro che banali, mi sono concentrato, più che sul cerimoniale, sui contenuti dei racconti. Il soggetto principale era, ed è, la tradizione. E’ il rispetto dei figli verso i padri; è il coraggio di fronte al nemico, ma è anche la lealtà nella lotta; è la bellezza e la sacralità della natura, di cui è d’obbligo nutrirsi; è la riscoperta del comico che filtra dalle relazioni umane; è il ritorno all’infanzia. Non si prega ricordando le cose brutte ma solo le belle, le eroiche, le vicende cariche di simboli e di magia. E’ tante altre cose che noi, qui in Europa, abbiamo dimenticato.

Soprattutto traspare un’idea del tempo dell’uomo che non è distinguibile da quella del cosmo. L’uno mortale e transeunte, l’altro eterno ma, chissà come, in questa tradizione possono convivere senza difficoltà. L’uomo passa, ma le  generazioni si susseguono e sono percepite come eterne. E’ un ciclo dove ognuna si riflette in tutte le altre. Allora si scopre che nessuna può pretendere il titolo di unica, e nessuno può estrapolare con un atto d’orgoglio la propria individualità. L’individuo ha un senso solo che si colloca all’interno del contesto familiare, collettivo, di villaggio, di popolo.

L’individuo singolo qui non è ancora arrivato. Tanto meno l’individuo consumatore. E capisco che quello cui assisto è un tentativo di difesa collettiva da un’aggressione che viene da fuori, e che è vissuta come inconciliabile con l’esistenza collettiva. 

In una di queste cene, lo starshij era un ex alto dirigente del partito comunista, grande navigatore nei marosi dei cambiamenti.  Agiva da vero signore della tavola. Il comunismo non c’è più, ma non c’era traccia, tra gli astanti, di alcun distacco, né ironia. Neppure negli sguardi. Assegnava il compito dei brindisi con paterna fermezza, non di rado alzando gli occhi al cielo, cioè al soffitto. Decideva quando ci si doveva alzare in piedi, e quando si poteva stare seduti e, quando prendeva la parola per sé,  era per invitare i presenti al racconto di qualche impresa, oppure all’omaggio di qualcuno dei parenti. Sul figlio spalmava generosamente i meriti del padre, come se non fosse possibile altrimenti; ne segnalava la continuità, la necessità.

In fondo alla tavola, ammessi ad assistervi dalla decisione –  niente affatto scontata – dello starshij,  quattro giovani. A loro non potevano essere assegnati brindisi, “per la contraddition che nol consente”: i giovani, infatti, non possono guidare, né dare consigli. Debbono essere guidati.  Alla fine, tre ore dopo,  sottovoce, scendendo le scale, ho chiesto loro se si erano annoiati. Forse un salto in discoteca l’avrebbero gradito di più? Posso sbagliare, ma la loro riposta, quasi sdegnata, mi è parsa sincera. Uno ha detto: “Questa è un’occasione per imparare”. Mi è parso un rimprovero, educato ma severo.

Ma devo dire che ognuna delle tante tavolate cui ho partecipato, era una sorpresa, un momento di raccoglimento, anche per me. Forse perché ero, là in mezzo, il più vulnerabile alle dosi da cavallo di vodka a vino che occorre sorbire senza alcuna pietà. Ma forse perché ero riuscito a penetrare, per un attimo, nel loro “tempo” di riflessione. Impossibile trasmettere quei “climi”. Forse lo si può fare con uno dei brindisi più curiosi, direi forse epici, cui ho assistito in un’altra tavolata, meno solenne, ma più densa di significati. Ad alta quota, a qualche chilometro dal tunnel di Rok, che collega l’Ossetia del Sud a quella del Nord, si parlava della lotta, plurisecolare e sanguinosissima, tra georgiani e alani (gli osseti del sud e del nord sono un unico popolo, alano appunto). La difesa della tradizione, e del popolo, là, è, in primo luogo, difesa dai georgiani. E, dunque, sono innumerevoli le occasioni per ricordarla, anche perché tutti coloro che erano attorno alla tavola l’hanno vissuta da protagonisti e hanno contato i loro morti.

Tocca a Dmitrij Nikolaevic parlare. E lui solleva il bicchierino pieno di vodka e racconta la storia di Abram Zanegattì. Personaggio che la leggenda dice vivesse in un villaggio di montagna, vicino alla “strada della vita”, che gli alani del sud percorrevano per aggirare i villaggi georgiani e passare il crinale del Caucaso indenni, verso i fratelli del nord. C’è ancora un piccolo santuario in sua memoria, e ogni anno, da più di cento, a una certa data, i contadini e pastori della zona vanno a ricordarlo. E, ogni anno, sacrificano un toro alla memoria di Abram. 

Storia o leggenda qui poco importa. Abram “doveva morire”. Un certo giorno, dopo una grave offesa subita dai georgiani, con morti e feriti, i  giovani della valle corrono in delegazione a cercare Abram,  grande combattente. La madre percepisce il pericolo e dice che il figlio non è in casa. Ma Abram ha ascoltato tutto ed esce sull’uscio. Domani si scenderà a valle tutti insieme, per lavare, con il sangue nemico, il sangue perduto. La notte prima della battaglia sarà, per Abram, indimenticabile. Sogna che morirà, e sogna che, prima di morire, chiederà ai suoi compagni di seppellirlo proprio in un dato posto della valle, sacro perché lui stesso l’aveva dedicato a San Giorgio. E chiederà loro di ricordarlo, ogni anno, in quel giorno, sacrificando un toro bianco, come quello del sogno della sua morte.

La spedizione si farà, sarà sanguinosa e vittoriosa, ma Abram tornerà vivo. E indenne. Ma come ignorare il sogno premonitore? Come rispettare la promessa a San Giorgio? Abram non può dimenticarla. Impugna non più la spada, ma un bastone, e torna, da solo, sul luogo della battaglia. Questa volta morirà, come doveva essere. La tavolata resta in silenzio. Lo starshij si alza in piedi, e tutti gli altri con lui. “Amin”. Così, nel tintinnio di bicchieri, terminano tutti i brindisi in Alania. 

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