È chiamato “oro rosso”. E per trovarlo servono sudore e ore di un lavoro massacrante, ripagato con tanti calli alle mani e pochi soldi. Eppure, anche al nord, la schiena degli italiani è tornata a piegarsi nelle campagne per la raccolta del pomodoro. Tornando ad affacciarsi su un settore, che da tempo ormai era regno esclusivo dei migranti, prima magrebini e poi indiani e pakistani. Colpa della crisi, delle aziende che chiudono e della disoccupazione che galoppa.

Il viaggio nel distretto del pomodoro parte dalle campagne intorno a Fiorenzuola, tra Piacenza, Parma e Ferrara. Niente a che vedere con il “triangolo”, che al sud evoca sfruttamento e caporalato. Qui, in questi campi dove si produce e si trasforma il 98% dell’intero pomodoro da industria nel nord Italia, sono ricomparsi gli italiani. Nella provincia di Piacenza, terra che vanta la maggior estensione di campi coltivati con questa coltura, non mancano le storie di chi, dopo aver perso il lavoro, è tornato a sporcarsi le mani per 6-7 euro all’ora.


video di Giulia Zaccariello

“Ero dipendente in un’azienda di impianti di depurazione in vetro resina a Caorso – racconta Anna Maria, 56 enne di Piacenza – ma complice il periodo economico e alcune scelte discutibili della ditta, ho preferito andarmene. Avevano iniziato pesanti tagli al personale ma soprattutto spesso non mi pagavano”. Un vero e proprio cambio di vita, dalla fabbrica ai campi, perché i ritmi sono ben diversi: “Ho provato a fare le pulizie, non è andata bene. Alle cooperative preferisco i privati. E poi mi sono adattata a tornare in campagna. Non è semplice – ammette – ci avevo lavorato da ragazza ma farlo adesso è dura. A una certa età è pesante stare sotto il sole dalle 7 alle 9 ore”. Guardare al futuro, poi, con un impiego stagionale, non è certo una passeggiata: “Se trovassi altro cambierei. Anche perché qui c’è lavoro solo d’estate. E d’inverno? Ci sto già pensando e non so cosa farò. Non si trova nulla e quel poco è in nero. Cercherò di andare avanti in qualche modo”.

Nelle campagne, rispetto al passato, gli spazi occupazionali si sono comunque ridotti. Soprattutto per gli italiani. Un po’ per l’introduzione della raccolta a macchina. E un po’, come accade ormai in tutti i lavori manuali, per l’arrivo in massa dei migranti che ha portato gli agricoltori ad abbassare drasticamente le retribuzioni. Però si trova anche chi, come Giovanni Terzi, quarantenne di San Giorgio piacentino, ha deciso che, anche potendo, non tornerà più indietro: “Facevo l’autista e stavo bene. Poi, purtroppo, hanno arrestato il titolare della ditta. Lui si intascava gli appalti per la manutenzione delle autostrade e io sono rimasto senza occupazione. Ma ora sto bene. Certo è dura, però preferisco lavorare il sabato e la domenica che piangermi addosso”.

Presenza più tradizionale, e ormai consolidata da anni, invece, quella degli studenti. Loro si concentrano soprattutto nella raccolta di aglio e cipolle, prodotti che ancora necessitano di essere colti manualmente. “È durissima – confessa Michela, 23 anni di Muradolo – non tutti sono predisposti, perché i giovani sono abituati in ufficio. Io lavoro, sono impiegata durante l’anno ma nelle ferie ho deciso di venire in campagna per racimolare qualche soldo in più. Stessa storia per Giorgia Soleri, 19enne che nella raccolta delle cipolle vede la possibilità di pagarsi l’università: “È faticoso ma non ho trovato altro. Ed è anche inutile cercare ormai. Ho sentito che avevano bisogno in campagna e non ci ho pensato due volte. Certo c’è da sudare, però alla fine uno stipendio lo porti a casa”.

Persino i pensionati italiani, che non riescono ad arrivare alla fine del mese, decidono di rimboccarsi le maniche e tornare su un trattore. È il caso del signor Gino, 60enne di Monticelli: “Lavoravo alla Telecom e nel 2002 sono iniziati gli spostamenti per il lavoro flessibile. In buona sostanza mi hanno mandato in pensione. Ho iniziato a prenderla nel 2004 e ora per andare avanti do una mano a dei miei parenti in campagna. I giovani sono ancora pochi, vista la situazione dovrebbero adattarsi a tutto. Capisco che è difficile, perché si fa il raccolto sia con il sole, sia con la pioggia. Non ci sono sabati, domeniche, Natale o Pasqua. In campagna non si pensa alle vacanze. Si vive con il tempo della terra”.

La tendenza che ha riportato lentamente gli italiani verso la campagna è stata anticipata dal boom di richieste di lavoro nelle industrie di trasformazione del pomodoro. Anche se, solo a Piacenza, quest’anno è stato assunto uno stagionale su cinque. Troppe le domande arrivate alle aziende, che si sono viste costrette a selezionare il 20% dei curriculum, cioè 700 su 3500.

Negli stabilimenti i tempi non sono quelli dei campi. Sono più standardizzati – 8 ore al giorno anche di notte – ma, anche in questo caso, per due mesi è necessario scordarsi sabati e domeniche. All’inizio dell’estate, davanti ai cancelli, si sono presentati molti “figli della crisi”, cioè gli under30 senza lavoro o precari. Disoccupati, ex imprenditori che hanno chiuso l’attività, casalinghe che cercano di integrare il reddito famigliare perché il marito è in cassa integrazione e alcuni pensionati con un mensile talmente risicato da non permettergli di arrivare alla seconda settimana del mese.

Ma il cosiddetto “oro rosso”, che a Piacenza può essere considerato un ammortizzatore sociale, non brilla più come una volta. I problemi sono tanti. Dal ritardo nella raccolta a causa di una primavera tardiva, al calo della metratura di terreno coltivato (nel distretto si è passati a 29175 ettari, rispetto ai 33 464 del 2012), fino alla mancanza di acqua a causa di accordi discussi tra regioni, come quello sulla diga del Brugneto, fatto con la Liguria, che non ha dato gli esiti sperati.

E così, le domande di lavoro aumentano ma calano le aziende. Nel Dopoguerra, Piacenza poteva vantare 40 ditte specializzate nella lavorazione del pomodoro. Oggi invece si contano sulle dita di una mano: Arp, Emiliana Conserve, Steriltom e Consorzio padano. Le altre rimaste si sono diversificate con l’inscatolamento di diversi frutti della terra, dal mais ai piselli fino ai fagioli. Come l’Agri Daf di San Giorgio, Conserve Italia di Lusurasco di Alseno, Manzella Carlo di Castelsangiovanni e la Suncan di Castelvetro piacentino.

Articolo Precedente

‘Niente voragini’, esempio dimenticato di lotta civile contro i parcheggi

next
Articolo Successivo

Presidente ordine giornalisti Emilia Romagna indagato con assessore Pd

next