Altro che democristiani, sembra molto più probabile che moriremo in contratto di solidarietà. I dati del ministero del Lavoro parlano chiaro. In tutto il 2012 ne sono stati stipulati 437. Nel 2013, al 24 maggio, i contratti di solidarietà firmati da aziende, governo e sindacati sono già 277.

Se si va avanti a questo ritmo chiuderemo l’anno con circa 700 accordi di taglio dell’orario di lavoro e della retribuzione. Proiettando gli oneri per lo Stato su tutto l’anno si potrebbe arrivare a 100-105 milioni, quasi pari alla spesa totale dei cinque anni precedenti, 110 milioni. Basta scorrere le cronache degli ultimi giorni per capire la galoppata: 32 mila in solidarietà a Telecom Italia, e tavoli sindacali aperti nei settori più disparati.

È tutto un solidarizzare, dai 2 mila impiegati Alitalia (che ne ha già lasciato 7 mila in cassa integrazione) alle migliaia dei call center Almaviva, dai 730 informatori scientifici della Menarini ai 1300 delle librerie Feltrinelli, dai telefonini Vodafone alla meccanica di precisione della Saes Getters. Poi c’è l’Ilva di Taranto, che sta gestendo con la solidarietà estesa a quasi tutti gli 11 mila dipendenti le fermate degli impianti per gli interventi ambientali. All’esercito crescente dei “lavorare meno lavorare tutti” sta per aggiungersi l’ondata dei bancari, a cui ha alluso il governatore di Bankitalia Ignazio Visco nelle sue “Considerazioni finali” del 31 maggio, quando ha parlato della necessità per il settore di “misure anche di natura temporanea, per ridurre le spese per il personale”. E infine sarà la volta dell’Enel, che si presenta al banchetto della solidarietà a spese dello Stato dall’alto dei suoi 3,5 miliardi di utile.

Perché tanto improvviso entusiasmo per l’ammortizzatore sociale soft? Nel fenomeno c’è qualcosa che non quadra: in qualche caso la sua esplosione appare riconducibile alla furbizia di imprese a caccia di scorciatoie per tonificare i bilanci. Il contratto di solidarietà ha indiscutibili vantaggi, ma anche zone d’ombra.

Tra i primi c’è la difesa dei posti di lavoro. Il contratto di solidarietà è un’alternativa ai licenziamenti e alla cassa integrazione. Se si denuncia l’eccedenza del 10 per cento dei dipendenti, il contratto di solidarietà consente di ridurre a tutti l’orario di lavoro e il salario del 10 per cento, con identico effetto sul costo del lavoro. Lo Stato risparmia su cassa integrazione o sussidio di disoccupazione, si risparmia ai predestinati il trauma della perdita del lavoro, si evita il problema delle discriminazioni e ingiustizie varie al momento della compilazione delle liste di chi resta e di chi parte.

Il sacrificio accettato da tutti i lavoratori per salvare il posto ai colleghi che sarebbero andati fuori, è compensato da un intervento pubblico, che restituisce al singolo lavoratore fino all’80 per cento del salario perso. Un salario netto da mille euro, in caso di solidarietà al 20 per cento, si ridurrà di fatto non a 800 ma a 960 euro, e il dipendente lavorerà solo 4 giorni alla settimana. A parte la paura per il cattivo andamento dell’azienda , non è un pessimo affare: di fatto la paga oraria aumenta.

Da qui la prima zona d’ombra. La disponibilità di una simile ciambella di salvataggio sembra incentivare le aziende a denunciare con più disinvoltura gli esuberi. Al tavolo sindacale sarà più agevole un accordo che comporta, a spese dello Stato, risparmi per l’azienda con un sacrificio relativo per i lavoratori.

Alcuni casi esemplari aiutano la riflessione. Al Sole 24 Ore, quotidiano economico controllato dalla Confindustria, dopo quattro anni di crisi che hanno comportato 140 milioni di perdita complessiva, l’azienda ha messo in solidarietà 400 giornalisti e 850 poligrafici e grafici. Il 18 aprile scorso il giornale ha scioperato per protesta contro il fatto che a fronte della situazione sopra descritta l’amministratore delegato Donatella Treu si fosse presa un bonus di 150 mila euro. Può un’azienda che chiede sacrifici ai dipendenti e sovvenzioni allo Stato premiare i manager? Da notare che spesso i manager, top e semi-top , sono premiati non per la crescita del fatturato o dei profitti, ma direttamente per il taglio dei costi, cosicché il contratto di solidarietà è spesso per i manager di arrotondare il proprio stipendio limando quello degli altri.

Il caso del Sole 24 Ore è una pagliuzza rispetto alla trave Telecom. Il gruppo telefonico ha fatto scuola. Nell’estate del 2010 ha annunciato 3700 esuberi, nell’autunno seguente ha siglato un accordo di solidarietà per due anni che le ha consentito di risparmiare circa 80 milioni all’anno di costo del lavoro su un totale di 2,5 miliardi.

Nella primavera di quest’anno ha riottenuto la solidarietà per 32 mila persone. In tutto questo lo Stato paga ai lavoratori l’80 per cento del salario perso, quindi almeno una sessantina di milioni all’anno (e qui noterete una discrepanza tra questo dato e quello del ministero del Lavoro sui 110 milioni spesi in cinque anni per tutti i contratto di solidarietà: purtroppo nessuno sembra in grado di fotografare esattamente le dimensioni economiche del fenomeno, i cui conti sembrano per lo Stato più inconoscibili del terzo segreto di Fatima). Ma se il contratto di solidarietà è una extrema ratio con cui imprese, lavoratori e contribuenti fronteggiano i drammi della crisi, perchè dare l’aiutino di 80 milioni a un gruppo che ha chiuso l’ultimo bilancio con oltre 1 miliardo di profitti dopo aver distribuito ai top manager premi per oltre 2 milioni di euro? È solidarietà con i lavoratori o con gli azionisti?

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