Tornano in piazza i “reclusi del welfare”. I disabili di tutta Italia si sono dati appuntamento oggi a Roma, piazza Montecitorio, per protestare contro lo smantellamento dei fondi destinati alle politiche sociali, con tagli che superano il 90% e mettono a rischio il futuro di 3,7 milioni di persone. Con l’azzeramento del fondo per la non autosufficienza viene infatti cancellata la speranza di emanciparsi di quanti sono costretti a pesare sulle proprie famiglie o a rinchiudersi in costose strutture di assistenza, anche quando non è necessario. Potrebbero uscirne grazie ai “progetti di vita indipendente”, l’istituto che assegna direttamente ai disabili gravi le risorse per gestire la propria assistenza, garantendo recupero sociale e risparmio per lo Stato. Il nostro Paese ha fatto la legge 14 anni fa ma non ha poi erogato i finanziamenti per metterla in pratica, scaricando l’onere di spesa sugli enti locali, che salvo rare eccezioni sono costretti a respingere le richieste dei disabili.

Ecco perché, a oggi, i progetti avviati sono appena un migliaio. E con una spesa pro-capite per i servizi alla disabilità di soli 23 euro contro i 125 della media europea, il welfare italiano rimane a carico delle famiglie che pagano un prezzo altissimo al disimpegno dei governi. Paragonate alle altre, infatti, sono più povere: il reddito dei nuclei con almeno una persona con disabilità è sotto la media, mentre già nel 2007 il 40% di queste famiglie dichiarava di non poter affrontare una spesa imprevista, contro il 28% delle famiglie senza membri disabili (dati Istat). Una realtà ben lontana dagli impegni sottoscritti nel 2009 dall’Italia con la ratifica della convenzione Onu sul diritto all’autodeterminazione delle persone con disabilità.

Al di là dei dati che fotografano una situazione drammatica, il punto è che i progetti di vita indipendente sarebbero un affare per lo Stato. Ma l’affare, chissà perché, lo fa qualcun altro. Gli studi e le analisi sulla spesa per l’assistenza indicano chiaramente che se a scegliere e retribuire chi lo assiste è direttamente il disabile, lo Stato risparmia fino a un terzo di quanto spende. Molto meno dei 380 milioni di euro che finiscono direttamente nei bilanci delle cliniche che hanno in cura 21mila invalidi, il cui onere principale ricade soprattutto sui comuni. E sicuramente meno rispetto al costo dell’assistenza domiciliare, che raramente soddisfa le esigenze di un disabile grave. La prova del nove arriva dalla Svezia dove la vita indipendente è considerata un investimento e non un costo del welfare. Avviando 16mila progetti, la Svezia è riuscita ad abbattere il costo orario dell’assistenza, realizzando un diritto del cittadino e facendo la felicità del contribuente.

Sui fondi si sta lottando, come dimostra la manifestazione di oggi. Ma il messaggio vuole arrivare anche oltre Montecitorio. Che esista un diritto esigibile e un percorso di affrancamento previsti per legge, infatti, i disabili neppure lo sanno. L’informazione stessa non viene loro neppure notificata. Se ne guardano bene le strutture, le Rsa, le cooperative di assistenza che perderebbero un prezioso “cliente”; e se ne guarda lo Stato che non arriva erogare neppure le risorse. In questo imbuto finiscono uomini e donne, giovani e coppie condannati a vivere prematuramente un’esistenza da anziani. Alcuni riescono a ottenere i finanziamenti per il loro progetto. Ma sono pochissimi e le loro storie hanno il comune denominatore di una lotta solitaria a un sistema che contrappone interessi economici, inerzia della politica, necessità per lo Stato di scaricare problema e costo alle famiglie.

Elisa, una donna di 31 anni affetta da atrofia muscolare spinale, voleva uscire di casa e condurre una vita dignitosa e autonoma insieme al suo compagno. Ha chiesto i fondi al Comune di Carugate (Milano) e davanti all’ennesimo diniego ha minacciato di incatenarsi al municipio. “La cosa incredibile – racconta – è che se il denaro lo gestisco io direttamente riesco a costare la metà e ad avere tutte le ore di assistenza che mi servono. Monti dovrebbe vedere il mio quaderno dei conti”. Chi sta nelle cliniche ha ancora meno chance. Perché il suo nome è abbinato a un numero di conto corrente. E’ un “ospite”, ma in realtà è un prezioso cliente la cui presenza garantisce rette molto alte: da 3 a 6mila euro al mese. E gli annunci per andarsene non sono mai esposti in bacheca, mai un volantino sulla vita indipendente.

Claudio ha scoperto di poter gestire i soldi per la sua assistenza grazie a internet e alle associazioni. E insieme hanno organizzato un progetto di vita indipendente con tutte le caratteristiche della fuga da un carcere: “Ero come prigioniero – racconta – vivevo con sofferenza la condizione di assistito che a soli quarant’anni spegne la luce quando vogliono altri ed esce solo quando c’è la gita di gruppo. Ho perso 21 chili in pochi mesi”. Poi si è imbattuto nel sito dell’Enil, un’associazione che promuove i progetti di vita indipendente. “Se l’avessi saputo prima – racconta Claudio – non avrei sofferto per tre anni una mancanza di libertà che non era motivata dalle mie reali condizioni di salute e di bisogno. Come me erano almeno dieci ricoverati su trenta a poterlo fare, ma nessuno si era preso la briga di informarli”. E il sospetto che qualcuno ci marci è forte.

Ma il punto è anche un altro, diffondere la conoscenza di questi progetti dovrebbe essere interesse di tutti. Perché a pagare le rette sono i contribuenti italiani e ancora una volta Claudio è in grado di dimostrare che oggi – libero e restituito alla società – ci costa meno. “Quando ero in struttura il mio costo per lo Stato era di 6.700 euro al mese. Oggi sono a casa mia, mangio e dormo quando voglio e scelgo in prima persona quanto e da chi farmi assistere. E il tutto per 2.300 euro. La mia personalissima spending review”.

di Franz Baraggino e Thomas Mackinson

Articolo Precedente

Obama e Romney dibattono. Altri chiedono assistenza sanitaria

next
Articolo Successivo

Darwinismo sociale travestito

next