C’è un bar a Bologna in cui potete chiedere espressamente una Sveltina alle bariste senza ricevere in cambio un ceffone o una denuncia per molestie sessuali bensì una dissetante birra artigianale. Un bar che già da tempo annovera tra i propri frequentatori un numero nettamente più alto della media di artisti d’ogni tipo e di persone che gravitano in un certo giro: alcuni dei migliori musicisti, performer, visual artist, scrittori, dj, promoter, editori, disegnatori, filmmaker, intellettuali d’ogni sorta che la città ha partorito li trovate lì ad alzare il gomito lungo il bancone o a bighellonare tra il portico ed il dehors… allé et retour. Anzi, lasciatemi dire che i migliori li trovate dietro il bancone.

I tanti appuntamenti culturali che con frequenza quasi quotidiana si alternano nella sala presentazioni della libreria Modo Infoshop sono noti da svariati anni oramai ma non molti ancora sanno che sta prendendo piede, da un po’ di tempo a questa parte, la sana abitudine di tenere dei live musicali anche all’interno del bar di Modo Infoshop, che come saprete è posto proprio lì accanto alla primigenia libreria. Lunedì 15 ottobre, alle ore 19.30 ci attende un set di Luciano Maggiore e Francesco “Fuzz” Brasini. Oltre a frequentare abitualmente il bar, anche separatamente, i due costituiscono uno dei migliori binomi che si possa ascoltare in questo momento: musicisti intelligenti, preziosi ed originali che collaborano dal 2010 e che hanno appena dato alle stampe How to Increase Light in the Ear, nuovo secondo lavoro per l’etichetta Boring Machines. Tra le altre cose i due si distinguono, anche e rispettivamente, il primo come fondatore di Sant’Andrea degli Amplicatori insieme a Dominique Vaccaro e Domenico Grenci, ed il secondo nelle vesti di collaboratore dal 2006 del Zapruder Filmmakers Group per la realizzazione delle colonne sonore per film ed installazioni e nell’elaborazione di progetti sonori.

Partono i primi suoni di Chàsm Achanés, il loro primo disco del 2011, e subito penso ai This Heat o ai Demdike Stare. Poi però entra in gioco la reiterazione dei drones e allora mi pare di cogliere riferimenti alla psichedelia della Kranky, alle band dell’antologia manifesto Harmony of the Spheres pubblicata a metà novanta dalla Drunken Fish, a Tony Conrad, al Jim O’ Rourke di Happy Days. All’epoca dell’uscita del disco avevano tenuto un concerto meraviglioso a Sant’Andrea. Quella sera avevano letteralmente trasformato quella piccola stanza sotterranea in una sorta di navicella che viaggiava nello spazio alla velocità della luce. Un po’ come quando nei film di fantascienza quei vettori vengono propulsi nell’infinitum dello spaziotempo dentro una “voragine immensa”, in quella Lux Aeterna che si raggiunge quando il climax di saturazione raggiunge l’apice.

Anche nel caso del nuovo How to Increase Light in the Ear (2012) il titolo è azzeccatissimo e quantomai calzante. Per inciso: il disco è splendido, alieno, notturno, inquietante, differente da ogni altra cosa mi sia capitato di ascoltare negli ultimi tempi. Per intensità e sensibilità l’unico altro artista odierno cui mi sento di accostarlo è Ben Frost e infatti non vedo l’ora di ascoltarmelo in una notte d’inverno, con un tempo da lupi. Maggiore e Brasini veicolano particolari frequenze che paiono attivare centri nevralgici e sensibilità acustiche inesplorate o sopite. Pare quasi di udire quel tinnitus che che ci fischia e ci ronza in testa in seguito ad un concerto particolarmente rumoroso. In vista del loro concerto li abbiamo intervistati.

Che strumenti avete utilizzato in passato e quali utilizzate attualmente?

LM: Ho iniziato usando soprattutto registratori a cassette e proprio l’interesse per il nastro magnetico come supporto mi ha portato ad acquistare il primo Revox. Per le fonti mi avvalevo all’inizio di un piccolo organo a ventola, di Upic, microfoni ed equalizzatori. Oggi a questa lista si può aggiungere un sintetizzatore analogico modulare.

FFB: Il mio primo strumento è stata una tastiera Casio regalatami a tredici anni, seguita a ruota da una chitarra così malandata che suonavano solo i primi cinque tasti. Dalla metà degli Ottanta ho accumulato tantissimi strumenti musicali: chitarre degli anni anni ’60 e ’70, sintetizzatori, organi e pianoforti elettrici analogici e amplificatori valvolari di ogni dimensione, strumenti etnici. Infine sono approdato alla realizzazione di una serie di chitarre autocostruite. Direi che la chitarra è il mio strumento preferito. Attualmente, durante i live con Luciano, utilizzo una Gretsch 6120 semiacustica, una Vox 12 corde del 1965 e un paio delle mie JG special “solid body”. Per quanto riguarda gli effetti utilizzo un Eventide harmonizer, uno space echo Roland e due E-Bow.

Nel vostro ambito musicale le collaborazioni sono svariate e spesso nascono suonando ed improvvisando insieme durante un particolare concerto o assistendo al concerto di qualche altro artista. Non vi sentite una sorta di élite carbonara con una rete di cellule ramificata a livello internazionale ed una geografia parallela?

LM: Quello di cui parli non credo accada in modo molto diverso negli altri ambiti musicali: la gente si ascolta, si piace e decide di collaborare insieme. Allo stesso modo nascono i posti: ci si rende conto che c’è bisogno di qualcosa che non c’è o non c’è più e si fa in modo di riparare la falla. L’accostamento alla carboneria effettivamente è molto calzante visto che parliamo di una scena piuttosto piccola e con un piccolo seguito: è questo che probabilmente crea quell’aura di mistero agli occhi di chi è abituato a considerare soltanto la musica mainstream: in verità dal nostro punto di vista la cosa è chiarissima e assolutamente alla luce del sole.

Com’è nato il vostro sodalizio artistico? Tra voi c’è un amalgama, un affiatamento ed una complementarità davvero non indifferenti…

FFB: Ho conosciuto artisticamente Luciano in occasione dell’happening Flora a Firenze, in una serata in cui presentava L’aspro, un lavoro di cinema espanso accompagnato da un potentissimo live che ricordo ancora. Mi ha colpito subito il suono che aveva utilizzato: si distaccava nettamente per la sua matrice radicale da tutto quello che avevo ascoltato fino a quel momento nei live offerti dal programma. In questa occasione ci siamo conosciuti e poi frequentati di seguito scambiando pensieri e riflessioni sul suono e sull’ambiente sonoro. Da queste chiacchierate abbiamo capito che potevamo provare assieme amalgamando i nostri strumenti e successivamente, da una serie di sessions sonore eseguite all’interno di un vecchio stabile, è nato Chàsm Achanés.

Luciano Maggiore, ho ascoltato il 7” Yellow: è un disco magnificamente pneumatico in cui a tratti pare di scendere in picchiata, a precipizio, in un’insostenibile circolarità (oggetto 2), in altri momenti pare che i nostri stessi polmoni vengano gonfiati in tensione abnorme come palloni fino a scoppiare (oggetto 5). Sono stati usati solo dei palloncini o anche altri oggetti?

LM: Yellow è la prima cernita di una serie di pezzi a cui lavoro saltuariamente dal 2009, ogni pezzo indaga forme e possibilità cromatiche e compositive che il suono di un solo oggetto per volta mi suggerisce, per questo motivo i pezzi si chiamano tutti oggetto n°. Oggetto 2 e 5 sono palesemente ricavati da palloncini ma il punto non è tanto svelare l’oggetto ma averci a che fare da musicista e riempire uno spazio temporale con quello che l’oggetto in questione può darti: sembra astrusa come cosa ma alla fine è come fare un pezzo per sola chitarra o per solo violino se ci pensi.

Anche in Intersezioni di vortici, studi ritmici e false chimere sono la forma e la materia costitutiva degli oggetti a farla da padrone. E’ come se venissero soppesati, lanciati e ne venissero testate le potenzialità sonore e dinamiche nello spazio deducendone delle ritmiche vere e proprie.

LM: Intersezioni di vortici, studi ritmici e false chimere è il mio primo lavoro in cui si intravede una forte componente ritmica ed è tutto costruito usando dei suoni ricavati usando un sintetizzatore modulare: tutto quello che senti dunque è sintetico. Il titolo dunque, che richiama qualcosa di marcatamente tecnico, non si distacca da quello che poi c’è dentro il disco. Scegliere questo nome in realtà è anche un espediente per svincolare l’ascolto da catene di significazioni che i titoli dei dischi secondo me tendono a conferire ai brani distogliendo l’ascoltatore da un ascolto puro. In questo lavoro ci sono un bel po’ delle cose che in questi ultimi anni mi hanno interessato.

Quale percorso ha condotto a composizioni di questo tipo, quanto di più lontano vi sia dagli ammiccamenti e dai ritornelli del pop e dalla cosiddetta “forma canzone”?

LM: Per quanto riguarda i motivi che ti portano a concepire certi tipi di musica piuttosto che altri, penso sia semplicemente una questione di ascolti/incontri fatti negli anni e che tipo di profondità ti interessa esplorare in musica sia da musicista che da ascoltatore.

Veniamo proprio al vostro nuovo disco, How To Increase Light in the Ear. Se non erro mi avevate detto che è preferibile non ascoltare questo disco in cuffia per poterne godere al meglio le caratteristiche. Spiegateci come questa musica si relaziona in modo variabile con gli spazi e con le persone nel momento in cui viene diffusa dalle casse.

FFB: L’ascolto di questo lavoro è assolutamente personale nel senso che, a mio avviso, i dispositivi che la tecnologia mette a disposizione vanno bene tutti. La situazione di ascolto ottimale per me è in un luogo chiuso, una stanza, dove le frequenze possono liberamente vagare rimbalzando sulle pareti e negli angoli. Questa situazione di ascolto crea effetti differenti a seconda della posizione spaziale dell’ascoltatore. Diciamo che è più divertente e succedono cose strane, ogni volta differenti. Poi, per una esperienza immersiva, le cuffie vanno benissimo ovviamente.

LM: Ascoltare il disco su un buon impianto oppure direttamente in cuffia offre semplicemente due esperienze diverse di fruizione e nessuna delle due è da considerarsi sbagliata. Durante la lavorazione abbiamo testato le due tracce su vari dispositivi e l’ascolto, pure acquisendo sfumature diverse, restituiva ogni volta la sensazione di base che il disco ci dava ascoltandolo su dei monitor. Il fatto è che quando queste tracce si diffondono in un ambiente, volta per volta gli spazi sembrano reagire alla diffusione del disco con piccole riflessioni acustiche e avvengono tutta una serie di piccoli effetti di spostamenti del suono che in cuffia, per il solo fatto che non si ha più a che fare con uno spazio, vengono persi. D’altra parte è difficile che chiunque disponga di un ottimo impianto, dunque l’uso delle cuffie si rivela addirittura ideale perché può sopperire a questa mancanza e dare un’idea più fedele del disco. Personalmente, ad esempio, preferisco sentirlo a volumi molto bassi ma è solo una questione di gusto personale.

Quali sono i principali clichés, se ve ne sono, che attualmente cogliete nell’ambiente della musica improvvisata, di ricerca, sperimentale?

LM: Di clichés ovviamente ce ne sono molti, ma fortunatamente vedendo molti concerti ti capita anche di incontrare tentativi riusciti e non in cui si cerca di esplorare nuove vie: vedi il lavoro di Mattin, Seijiro Murayama o molti dei musicisti della nuova scena coreana che si muovono attorno a Dotolim e Balloon & Needle che, secondo me, stanno inventando un vero e proprio modo di suonare.

Incidete per una delle migliori etichette italiane. Com’è nato e si è sviluppato il rapporto con Boring Machines? Quali sono i vostri artisti preferiti tra quelli in catalogo e quali altri, in generale, vi sentite di consigliare in questo momento?

LM: Con Boring Machines la collaborazione è nata con Chasm’ Achanés, abbiamo provato a fare sentire ad Onga [il boss dell’etichetta NdR] il lavoro e gli è subito piaciuto così come per How to increase light in the ear. Ci piace l’eclettismo di Onga nella scelta dei dischi che pubblica, il suo lavoro è un lavoro da appassionato che non si cura tanto di una linea editoriale ma di un proprio gusto personale (che poi fa la linea editoriale), si vede la persona e non la mira, e a noi la cosa sta bene. Il disco che nell’etichetta preferisco è Lieu di Attila Faravelli e Nicola Ratti così come anche i dischi di Be invisible now! Di ascolti se ne fanno tantissimi ed ogni periodo ha i suoi nuovi dischi e quelli che tornano sempre in mano per essere ascoltati, una breve lista di musicisti da seguire potrebbe essere questa facendo vecchi e nuovi nomi ma la lista potrebbe essere davvero lunghissima: Jarrod Fowler, Jacob Ullmann, Luc Ferrari, Robert Ashley, Enrico Malatesta, Dakim, Hong Chulki, Renato Rinaldi, Jin Sangtae, Michael Pisaro, Taku Sugimoto, Toshiya Tsunoda, Eliane Radigue, Cristian Wolfarth, Giuseppe Ielasi, Carlfriedrich Claus, Valerio Tricoli, Adam Asnan, Choi Joonyong.

FFB: Per quanto riguarda Boring Machines, direi che è una delle etichette più eclettiche del panorama internazionale: mi piacciono tantissimo i Father Murphy e apprezzo i lavori di Be Invisible Now, My Dear Killer, Heroin in Tahiti e Faravelli Ratti. Per quanto riguarda la mia lista di ascolti, se me lo concedi, vorrei citare un musicista e una band che non mi stancano mai, ormai da tantissimi anni: Link Wray e i Cramps.

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