Quella dell’Alcoa è una classica storia di profitti privati e perdite pubbliche. Una storia di aiuti di Stato e di Stato incapace, di privatizzazioni che alla fine presentano il conto. Come nel caso dell’Ilva. Anche lo stabilimento di Portovesme, in Sardegna e quello di Fusina in Veneto, vengono dalle partecipazioni pubbliche. Si chiamavano Alumix e appartenevano all’Efim, struttura nata per guidare le industrie meccaniche, poi diventato un carrozzone con perdite miliardarie. E così, con la sua liquidazione nel 1995 la produzione di alluminio passa alla multinazionale statunitense, l’Aluminum Company of America, Alcoa, terzo gruppo mondiale, un colosso da 61mila dipendenti nel 2011, 25 miliardi di dollari di fatturato, 614 milioni di utili nel 2011 contro i 262 del 2010

Alcoa, però, comincia nel 2008 a lanciare l’allarme sui costi della produzione in Europa, soprattutto per l’alto costo dell’energia. L’allarme si traduce poi in dramma quando, nel novembre del 2009, arriva la doccia fredda: si chiude, produrre nel Sulcis non è più conveniente. I dipendenti, già allora, mostrano una grande capacità di resistenza e di opposizione alle scelte aziendali. Manifestano per ben due volte a Roma, il 26 novembre dello stesso anno e poi di nuovo a febbraio del 2010 (anche il Fatto manifesterà con loro, in Sardegna). E riescono a ottenere il ritiro delle decisioni aziendali.

PURTROPPO non è una vittoria perché si tratta soprattutto di una dilazione dei tempi: il governo si impegna di nuovo a garantire provvedimenti di agevolazione nella fornitura di energia elettrica e l’azienda fa buon viso a un gioco che, sotto banco, è sempre più cattivo. Perché le decisioni sono già prese e hanno a che fare con la sanzione che la Commissione europea commina ad Alcoa, e all’Italia, per gli illeciti “aiuti di Stato” concessi nel 2004 e poi nel 2005 dall’allora governo Berlusconi. Aiuti che consistono nel rimborso della salata bolletta elettrica. La storia è poco nota ma è ben spiegata nella decisione della Commissione del 19 novembre 2009 e pubblicata sulla Gazzetta ufficiale europea. Quando rilevò gli stabilimenti dalla Alumix, Alcoa beneficiò di uno sconto per dieci anni, dal ‘95 al 2005, che non fu catalogato come aiuto di Stato perché si inseriva nel processo di privatizzazione. Nel 2004 e nel 2005 il governo italiano proroga gli aiuti contro i quali, però, si esprime la Commissione che li giudica “illegittimi”. Nel documento pubblico vengono anche indicate le somme che Alcoa riceve, come rimborso, dall’ente pubblico Cassa conguagli: 172 milioni di euro per il 2006, 158 milioni per il 2007, 210 milioni per il 2008 e 16 milioni limitatamente al 31 gennaio del 2009.

Calcolando anche gli anni successivi sarà il ministro Sacconi a parlare di un miliardo di euro di aiuti. Per i dieci anni precedenti si possono così stimare circa 2 miliardi. Alcoa, quindi, per produrre alluminio in Italia ha usufruito di un sostegno dallo Stato di circa tre miliardi. “La tariffa contestata – scrive la Commissione – è sovvenzionata mediante un pagamento in contanti da parte della Cassa conguaglio che è un ente pubblico (…) Le risorse necessarie sono raccolte mediante un prelievo parafiscale applicato alla generalità delle utenze elettriche mediante la componente A4 della tariffa elettrica”. Nonostante queste cifre, la somma che Alcoa è chiamata a restituire è di 300 milioni di euro, ancora non versata.

Quando capisce che però la pacchia è finita – la Commissione inizia il suo procedimento di infrazione nel 2004 – la multinazionale Usa inizia a guardarsi intorno. E, infatti, già a dicembre del 2009 viene siglata l’alleanza con la saudita Ma’aden per la costruzione di un enorme sistema integrato di produzione di alluminio sulla costa orientale dell’Arabia Saudita con un investimento di circa 11 miliardi di dollari. La produzione si trasferisce, quindi, laddove la manodopera e l’energia costano molto di meno.

SIAMO alla fine del 2009. La vertenza si trascinerà per mesi e solo a maggio del 2010 si arriverà a un primo verbale di intesa con il quale il governo italiano, stavolta nel rispetto delle normative europee, garantisce ad Alcoa con il decreto 25 gennaio 2010 la “sicurezza di approvvigionamento di energia elettrica nelle isole maggiori” consentendo la riduzione del costo del servizio. L’azienda si impegna a mantenere aperta la produzione ancora per qualche tempo. Ma a gennaio del 2012 si ferma di nuovo tutto. Ai sindacati non resta che accettare l’accordo del 27 marzo di quest’anno con il quale l’azienda, in assenza di formali lettere di intenti, si impegna a mantenere la produzione fino al 31 agosto e la fabbrica in funzione fino al 31 ottobre per le operazioni di spegnimento. In presenza di acquirenti, questo limite slitterebbe al 31 dicembre. Ma l’acquirente non si trova. Il fondo Aurelius, l’unico a farsi avanti, si è sfilato il 1 agosto lasciando i lavoratori con la sensazione di essere stati beffati. Potrebbe avviarsi una trattativa con il fondo Klesh o con la multinazionale svizzera Glencore che ha già un sito nel Sulcis. Ma non c’è nulla di concreto. Eppure, la Commissione Attività produttive della Camera ha votato, all’unanimità, una mozione in cui si conferma “la valenza strategica nazionale del settore dell’alluminio” in un Paese in cui la produzione “copre solo il 12 per cento del fabbisogno interno, il valore più basso tra i paesi industrializzati”. L’Italia importa quasi il 90 per cento e si priva di stabilimenti che ha già. Appunto, una storia di sprechi e di regali. A una multinazionale Usa che ora va via.

da Il Fatto Quotidiano del 26 agosto 2012

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