Renzo Bossi

Renzo Bossi lascia il suo posto al Pirellone. Dimissioni ben pagate, a dire il vero: per due anni da consigliere lombardo si porta a casa una indennità da 40mila euro. Niente male per uno che, secondo suo papà Umberto, “da due mesi era stufo di stare in Regione”. Lui, il Trota, parla di una decisione che dà l’esempio e dice: “Sono stato costretto a dimostrare ogni giorno che le oltre 12mila preferenze prese sul territorio erano frutto del mio lavoro e non del nepotismo becero”.

Il suo lavoro da politico, però, si interrompe prima del previsto. Renzo ha deciso così, dopo lo scandalo dei soldi pubblici girati dall’ex tesoriere Francesco Belsito agli esponenti del Carroccio: tre anni prima del termine della legislatura, se ne va. Ma all’indennità di fine mandato ha diritto lo stesso. Lo stabilisce l’articolo 3 della legge regionale numero 12 del 20 marzo 1995: “Ai consiglieri cessati in corso di legislatura, a quelli non rieletti, o che non si ripresentino candidati, nonché ai loro aventi causa in caso di decesso, spetta una indennità di fine mandato nella misura dell’ultima indennità annuale di funzione lorda percepita per ogni legislatura; nel caso di frazione della medesima il conteggio è determinato proporzionalmente”. Tradotto: se fosse rimasto al Pirellone tutti e cinque gli anni, Bossi junior si sarebbe intascato una liquidazione da 102mila euro. Di anni sui banchi della Lega ne ha invece passati due: gli euro che gli spettano sono quindi poco più 40mila. E fa niente se si è dimesso in anticipo.

Qualcosa se ne andrà via con le tasse. Ma il Trota non si può certo lamentare, fare il consigliere gli ha fruttato bene: ci sono anche gli oltre 9mila euro guadagnati ogni mese, tra indennità di funzione, rimborsi e diarie, al netto delle ritenute fiscali e dei contributi per indennità di fine mandato e vitalizio. E poi c’è quella parte del finanziamento pubblico ai partiti che, secondo le inchieste giudiziarie, finiva in tasca sua, come i 130mila euro per la laurea in un’università di Londra. E poi le auto, un’Audi A6 e una Smart. Senza tralasciare quelle manciate di 50 euro che di volta in volta gli metteva in mano l’autista, perché potesse pagarsi la benzina e qualche altra piccola spesuccia.

A Franco Nicoli Cristiani, l’ex vice presidente del Consiglio regionale finito in carcere con l’accusa di aver preso tangenti, i 340mila euro di indennità di fine mandato sono stati congelati. Ma sui 40mila euro di Renzo Bossi non si può fare nulla. “Questi sono soldi già accantonati – spiega Alessandro Alfieri, consigliere regionale e vicesegretario lombardo del Pd – sta a lui prenderli o non prenderli. Certo, davanti alle intercettazioni allucinanti che sono uscite, se li rifiutasse, darebbe un segnale importante per recuperare un pizzico di credibilità”.

Secondo Chiara Cremonesi, capogruppo di Sel, “Renzo Bossi sta diventando il capro espiatorio di un Consiglio pieno di indagati. C’è anche l’indennità che Nicole Minetti continua a percepire. E a fine mandato lei si troverà una liquidazione ancora maggiore di quella di Bossi”.

Qualche mese fa era stata proposta in Aula l’abolizione dell’indennità di fine mandato e del vitalizio cui i consiglieri hanno diritto compiuti i 60 anni. Alla fine però, con l’approvazione della legge regionale numero 21 del 13 dicembre 2011, i tagli sono stati rinviati alla prossima legislatura: così si è salvata anche la buonuscita del Trota. “Questo è il peccato originale che il Consiglio avrebbe potuto cancellare – commenta Gabriele Sola, vice capogruppo dell’Idv – sarebbe bastato un po’ più di coraggio quando si è discusso della riduzione dei privilegi della Casta regionale”.

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