L’astrofisico Francesco Sylos Labini (FSL) ha recentemente, nel suo blog sul Fatto Quotidiano, dubitato della capacità dei premi nobel in Economia di migliorare la condizione umana. In risposta, mi piacerebbe limitarmi a fare qualche battuta sull’opportunità o meno di considerare Plutone un pianeta. E invece abbocco: il messaggio è abbastanza giusto come spiegherò in seguito, ma gli argomenti sono tutti sbagliati.

Questo è perciò un invito a fisici, ingegneri, biologi, architetti e notai a non avventurarsi a determinare a quale membro di quale scuola debba essere assegnato il nobel per l’Economia. Tantomeno a cercare di capire quanto importanti siano i loro contributi. L’economia è una disciplina difficile, che richiede anni di studi dopo la laurea. Anche un laureato in economia ha solo una pallida ed imprecisa idea di quali siano le metodologie ed i risultati ottenuti dalla ricerca economica degli ultimi quaranta anni. Ancora meno se questi siano risultati rilevanti per il benessere collettivo. Nessuno di noi economisti si permette di consigliare quale sia la migliore cosa da fare per curare l’itterizia, né di discutere quanto importante sia per l’umanità il nobel conferito quest’anno ai fisici che hanno scoperto che l’universo si stia espandendo più velocemente osservando le supernove.

Il nobel in Economia viene conferito a studiosi che hanno ottenuto risultati fondamentali per la disciplina. Viene scelto da economisti affermati (selezionati fra gli svedesi), ed è in un certo senso affare interno alla disciplina. Il premio non verrà mai dato a chi ha semplicemente contribuito con qualcosa di importante al benessere economico dell’umanità. Non l’ha preso Steve Jobs, non lo prenderà Bill Gates. Non l’ha preso nemmeno l’economista Yunuf, l’inventore del microcredito, che ha vinto invece, meritoriamente a mio avviso, il Nobel per la pace.

Mi scuso se la seguente discusione apparirà come una diatriba fra gente che ha scelto di studiare cose diverse. Esempi concreti di come lo studio dell’economia ha migliorato la condizione umana non mancano, e sono spesso traducibili in termini comprensibili ai non studiosi, ma sono l’argomento di un altro post. Qui mi limito a parlare del Nobel.

Le critiche al premio per l’economia si ripetono continuamente. Il primo argomento è sempre il solito, lo ripetono tutti, fino alla nausea: quello in economia non è un premio Nobel, è il “Bank of Sweden prize in honor of Alfred Nobel”. Quindi non ha lo stesso valore! Eh sì il povero Alfred si sta rigirando nella tomba. La risposta a queste obiezioni è ovvia, ma la ripetiamo ancora una volta: la reputazione di un premio non è data da chi lo ha istituito, né dal nome, ma da chi lo assegna. Se cominciano a elargire premi a caso, del premio si comincerà a parlare sempre meno. Se domani cambiano il nome da Nobel a Sylos, se ne parlerà in ugual misura, forse di più. Le intenzioni di Alfred Nobel, per quanto nobili, contano poco.

Ma FSL ci rivela che Peter Nobel, avvocato e discendente, si è dissociato assieme alla sua famiglia da tale premio. Insomma, l’avvocato invoca una specie di copyright sul nome del premio, come se di copyright non ce ne fosse abbastanza (ma il Pirate Party non è nato in Svezia? Chissà cos’hanno loro da dire su questa pretesa). Il buon avvocato si lamenta anche (e FSL ritiene che questo meme debba essere propagato – e io ci casco) che ci deve essere qualcosa di sbagliato se tutti i premi tranne due siano andati ad economisti occidentali.

Non so se ci sia qualcosa di sbagliato, ma qualche fattore importante c’è: studiare l’economia, come l’astrofisica del resto, è un lusso, e se lo possono permettere solo i paesi più ricchi. L’economia però, al contrario dell’astrofisica, ha come scopo anche il capire come i paesi poveri possano crescere e svilupparsi, così magari un giorno qualche premio nobel (uno di quelli veri) potrà essere assegnato anche a un astrofisico del Bangladesh che studia in Africa.

Ma FSL rilancia: si lamenta (citando qualcun altro a me sconosciuto) che due terzi dei premi siano andati ad economisti americani della “Scuola di Chicago che creano modelli matematici per speculare sui mercati azionari e delle opzioni – L’opposto degli scopi di Alfred Nobel di migliorare la condizione umana”. Non so neanche cominciare a sgarbugliare questa frase: sono i premi nobel a speculare o sono i modelli? Il fatto che gli economisti siano americani è grave? Ad Alfred Nobel davano fastidio i mercati o solo le opzioni?

La verità è che di premi nobel che si siano occupati direttamente di mercati finanziari ce ne sono stati cinque (Merton e Scholes nel 1997 e Markwowitz, Miller e Sharpe nel 1990), due dei quali (il primo e l’ultimo) nemmeno associati alla Chicago University. I loro studi non sono serviti tanto a speculare sul mercato, quanto a capire come funzionano i mercati finanziari. Non mi avventuro nemmeno a spiegare quanto tutti vivremmo molto peggio se non esistessero i mercati azionari o le opzioni, perché non è questo il luogo.

FSL continua lamentandosi dell’alto tasso di conflittualita interna fra “diverse scuole”. Certo, esiste un dibattito scientifico, come in tutte le discipline, astrofisica compresa. Certo, non ci occupiamo del nome da dare alla moneta greca se uscirà dall’euro. I nostri temi sono un tantino più rilevanti per l’uomo della strada. È vero che la conflittualità esiste, ma i nobel vengono conferiti a studiosi affermati per scoperte che hanno avuto un impatto ampio e durevole nella disciplina. Scorrendo l’elenco dei premiati, trovo solo peccati di omissione più che di inclusione. Tutto sommato, questo gruppetto di svedesi che tanta importanza sembra avere fra gli economisti non sceglie proprio così male.

Infine, FSL se la prende con una frase di Robert Lucas pronunciata nel settembre 2007. Il povero BOB avrebbe scritto che i subprimes non erano un problema e che non si sarebbe andati in recessione. Ok, questa la incasso: Bob non è un santone, né un visionario. Per chi lo conosce, non si tratta di una grande novità. Perché, caro FSL, una delle cose che Lucas & Co. ci hanno insegnato (sì proprio loro della famigerata scuola di Chicago) è che l’unica previsione che possiamo fare in economia è che non si possono fare previsioni. Se Lucas avesse potuto prevedere che due settimane dopo i mercati sarebbero crollati, i mercati sarebbero crollati il giorno dopo, falsificando la sua stessa previsione.

Bob Lucas resta però una delle menti più acute del ventesimo secolo, una mente che ha avuto un impatto reale sul modo di concepire ed eseguire politiche monetarie e fiscali, e che per questo ha influito, positivamente, sulla vita di tutti oggigiorno. Lucas ha fornito contributi fondamentali nella disciplina sui fattori che determinano la crescita di un paese. Grazie a lui ne sappiamo di più, anche se ancora troppo poco, su cosa fa rimanere povera l’Africa. Questo anche se non ha saputo, nel settembre 2007, prevedere la crisi. Mi piacerebbe spiegare perché (per esempio, parlare della Lucas Critique) ma non posso farlo. Non posso perché l’economia è una disciplina difficile che richiede anni di studi e sudore. Come l’astrofisica. Per questo non trovo opportuno discettare (neanche sul mio blog) sull’opportunità di conferire il nobel a questo piuttosto che a quest’altro fisico. O ad analizzare la distribuzione dei luoghi di nascita dei premi Nobel in chimica.

Ma veniamo al punto fondamentale di FSL: tutto sommato, gli economisti non migliorano più di tanto la condizione umana. Su questo sono d’accordo. Usando un criterio certamente consono alla “scuola di Chicago”, il salario è una misura del contributo di un lavoratore al prodotto di un paese. Lo è di più in condizioni di concorrenza nel mercato del lavoro, di meno in condizioni monopolistiche, ma almeno serve a dare un’ordine di grandezza. Accettando questo criterio, per misurare il contributo degli economisti al benessere globale basta sommare tutti i loro salari. Ad essere fortunati, arriveremo sì e no a una frazione di millesimo del Pil globale. Ecco, questo è il nostro contributo al miglioramento della condizione umana. Giusto un pelino più grande di quello degli astrofisici.

di Andrea Moro, Professore associato Vanderbilt University

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