Ora che è caduta anche l’ultima ipocrisia, possiamo fare il punto, senza menzogne e senza la necessità di fingere. Non che a certe imposture gli italiani ci abbiano mai creduto, per carità. Semplicemente si fingeva, come si finge in certi matrimoni, per mantenere almeno le apparenze quando la sostanza s’è sgretolata via da un pezzo. Ma adesso neanche più.

E alla luce dei veli caduti, dell’ipocrisia caduta, degli scenari squarciati, guardiamo in faccia la realtà. E’ una guerra questa. Una guerra. Quotidiana. Lenta. Dolorosa. Una guerra che lascia sul campo morti che non possiamo neppure permetterci di piangere, perché ormai siamo consapevoli che i martiri sono necessari, i caduti sono necessari, anche solo per tentare di riprendersi una normalità a cui abbiamo abdicato da tempo, senza neppure saperlo.

Gli uomini e le donne che ho visto nelle immagini scattate in Val Susa, potrebbero appartenere indifferentemente a qualunque etnia, a qualunque nazionalità, a qualunque popolo. Sono i volti di chi non si è arreso, di chi non si arrenderà. Sono i volti di chi resiste alla sopraffazione, di chi, metro dopo metro, riconquista la terra che è sua e che, contro la sua volontà, un usurpatore vuole scippargli per sventrarla, squartarla, violentarla. Stuprando un territorio con il passaggio di una linea ferroviaria ad alta velocità pagata con i soldi pubblici, sebbene troppi studi sostengano l’inutilità del progetto e l’impossibilità di rientrare dei capitali investiti. Insomma, senza soldi pubblici nessuno investirebbe due lire: è un progetto a perdere.

Quegli uomini e quelle donne, dunque, sono lì per difendere un diritto. E’ l’ultimo baluardo. Via via sono stati esclusi da tutti i tavoli dove si discuteva sulle divisioni delle torte, perché loro la torta non volevano mangiarla. Senza dare nell’occhio, alla chetichella, senza che i media dessero loro un po’ di spazio e un po’ di fiato. Lasciati soli per vent’anni, l’attenzione mediatica si ridesta ora, quando l’odore del sangue richiama gli sciacalli. Perché ora, secondo gli esimi signori, “c’è la notizia”. Due parole su questa faccenda della notizia, poi, ve lo giuro su una pila di bibbie, non vi assillo più. Io credo nel mestiere che faccio. E il mestiere che faccio non è quello di raccontare briciole di fatti, avanzi di circostanze, epifenomeni di realtà. E’ molto più nobile di questo, il mestiere che faccio. E non corre dietro la scia di sangue quotidiana: racconta la realtà, spiega le ragioni, inquadra in panoramica.

Quello che accade è dunque questo: un rigurgito di dignità. Un sussulto insperato di orgoglio. Quell’orgoglio che tentano in ogni modo di soffocare, di sconfiggere, di piegare. La carica sui manifestanti contro la Tav può essere letta solo in quest’ottica. E’ una intimidazione, una rappresaglia, una ritorsione, una vendetta. E’ il tentativo estremo di prevaricazione. Quando, con un improbabile colpo di mano, ci si vede sottrarre di colpo un paniere d’affari come quelli legati al nucleare e all’acqua, la rabbia piglia il sopravvento. E allora, si torna al “colpirne uno per educarne cento”. Colpire magari quello che si era pensato più debole. Più facile da abbattere. Sottomettere. Piegare. Tentare di salvare l’ultimo affare, non importa se al prezzo di un costo sociale, umano e ambientale senza misura.

Siamo ostaggi. Ostaggi in mano ad un gruppetto di affaristi e politicanti per i quali restiamo carne da cannone. Siamo ostaggi con l’illusione di essere uomini. E nell’illusione di essere uomini si combatte sui monti, novelli partigiani, affinché quell’illusione diventi reale. E non importa quante condanne, quante menzogne, possano piovere su questa battaglia. La verità è una sola, e non può essere nascosta. E dunque diciamola, questa verità.

Jacopo, studente veneziano di 19 anni, è tuttora in ospedale con traumi gravissimi ed in condizioni molto serie. Il poliziotto che gli ha sparato una granata lacrimogena da guerra lanciata ad alzo zero lo ha fatto volontariamente e sapendo di poter uccidere.

Fabiano è stato picchiato per ore, anche con un tubo di metallo, e sottoposto a torture dopo il suo fermo, fino a rendere necessario il suo trasporto d’urgenza con elicottero in ospedale. E’ stato ferito gravemente riportando traumi lacero-contusi al capo, il setto nasale fratturato ed ha una mano spaccata.

Gianluca, un altro attivista, è stato fermato e trasportato in ospedale per le botte ricevute. Agli arrestati è stato riservato un trattamento violento e privazione delle cure mediche, tant’è che posti di blocco hanno più volte tentato di impedire il passaggio dell’ambulanza per soccorrere i feriti.

Oggi gli uomini delle istituzioni condannano le violenze non delle forze dell’ordine (che beffa, l’uso di certe parole!) ma le presunte violenze di chi, disarmato, senza protezione, vestito solo del proprio coraggio, tentava di tenere testa ad una fiumana in assetto da guerra che, a dieci anni da Bolzaneto, non ha abdicato a nessuno dei metodi che è solita usare.

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