L'Ad della Fiat, Sergio Marchionne

I grandi sostenitori della “rivoluzione” imposta da Sergio Marchionne adesso sono in imbarazzo: ma come, tutto il sistema delle relazioni industriali si adegua alle sue esigenze e lui annuncia che la sede del gruppo che nascerà dalla fusione tra Fiat e Chrysler sarà a Detroit? Maurizio Sacconi, il ministro del Welfare che tifava Fiat contro Fiom nella vertenza sindacale, dopo una telefonata con Marchionne riferisce una mezza smentita: “Mi ha spiegato il senso delle ipotesi formulate con esclusivo riferimento a futuri e possibili, ma assolutamente non decisi, assetti societari, senza alcun riferimento né per l’oggi né per il domani a una diversa localizzazione delle funzioni direzionali e progettuali della società”. Ma davanti al pubblico americano il capo della Fiat e della Chrysler ha detto ben altro.

Il disagio degli entusiasti
La notizia arriva nella tarda serata di venerdì, da uno scarno resoconto di Automotive news sulla fiera dell’auto di San Francisco: “Il gruppo Chrysler e la divisione auto della Fiat potrebbero diventare un’unica compagnia, lo ha detto l’amministratore delegato di Chrysler e Fiat, Sergio Marchionne”. Piero Fassino, candidato sindaco di Torino per il Pd, sostenitore delle ragioni dell’azienda durante il referendum a Mirafiori, commenta subito: “Credo che Marchionne debba dare un chiarimento sul senso delle sue parole”. A Susanna Camusso, della Cgil, il senso sembra già abbastanza chiaro e quindi chiede al governo di convocare i vertici Fiat. Sergio Chiamparino, il sindaco uscente di Torino, che nel Pd è sempre stato quello più allineato sulle esigenze di Marchionne, annuncia: “Il presidente John Elkann mi ha spiegato che ci saranno più centri direzionali nelle aree dove c’è una forte presenza di mercato: una a Torino per l’Europa, una Detroit per gli Usa, una in Brasile e se possibile una in Asia”. Che non è molto più rassicurante dell’annuncio americano.

In attesa che Marchionne “chiarisca” (cosa che finora non ha mai voluto fare sui punti ambigui della sua strategia), le fonti ufficiali Fiat minimizzano ma non smentiscono: trasferire l’headquarter, come si chiama già all’americana il quartier generale, non sarebbe poi un trauma. Qualche centinaia di posti in meno, certo, ma la Fiat è già un’impresa globale e che le decisioni vengano prese a Torino o a Detroit poco importa, dicono dal Lingotto. “Ma non scherziamo, è chiaro che se la sede è in America e un domani arriva un governo democratico di Cuba che offre condizioni vantaggiose, Marchionne non ci penserebbe due volte a spostare la produzione da Torino all’Avana. L’Italia sarà alla pari della Polonia o del Brasile: una colonia”, dice un ex dirigente Fiat. Il piano industriale di Marchionne per l’Italia, in fondo, si concentra solo sul massimo utilizzo degli impianti, che ora vengono sfruttati solo al 37 per cento (anche perché produrre più auto non servirebbe, visto che la Fiat non le vende). Nessun accenno a dove si prendono le decisioni, visto che l’Italia è considerata come una grande catena di montaggio più che un sistema industriale che pensa, progetta e costruisce.

Spostare il centro decisionale a Detroit significa accentrare lì tutte le decisioni strategiche. E questo avrebbe anche un senso visto che l’attuale struttura di Fiat-Chrysler è un po’ ridondante. “Come fai a gestire 23 persone che riferiscono a te a Detroit e altre 25 a Torino?”, si chiede Robert Kidder, presidente di Chrysler sentito dal Wall Street Journal. Più semplice condensare tutto in Michigan, usando l’Italia come reparto assemblaggio. Ma questo significa per Torino perdere tutta la parte a più alto valore aggiunto, quella che fa la differenza. Lo certifica un recente (2009) studio della Banca mondiale, “Crisi e protezione nell’industria dell’auto”. I due autori, Timothy Sturgeon e Johannes Van Biesebroeck sostengono che “la parte preponderante del lavoro di progettazione del veicolo, nella quale i concetti si traducono in componenti, rimane centralizzato o nei dintorni dei centri design che sono sorti intorno ai quartier generali delle principali imprese”. Fuori dal gergo: dove c’è il centro decisionale, lì si concentrano ingegneri, progettisti, esperti di marketing, economisti d’impresa.

Addio alla colonia Italia
“L’Italia è una colonia con dei problemi, se ci va bene arrivano i tedeschi dell’Ovest a mettere ordine, se va male quelli dell’Est”, diceva Gianni Agnelli ai suoi collaboratori. Alla fine è arrivato Marchionne l’americano, ma l’ordine rischia di assomigliare al famoso deserto chiamato pace di Tacito. Certo, restano alcune questioni in sospeso prima di recidere ogni legame con Torino: dal destino dell’altra metà di Fiat, il ramo camion e trattori che non si fonderà con la Chrysler, alle partecipazioni storiche come quella nel Corriere della Sera (ma ci vuole un attimo a liberarsene, anche se con pesanti minusvalenze) o la quota di controllo della Stampa. Poi, certo, bisognerebbe anche vendere qualche auto, visto che il bilancio 2010 della Chrysler è ancora in rosso di 652 milioni di dollari e quello di Fiat Auto è in utile di 600 milioni soprattutto grazie ai tassi di cambio che gonfiano i profitti brasiliani tradotti in euro.

da il Fatto Quotidiano del 6 febbraio 2011

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