Quando ho comprato la mia auto, mi hanno spiegato che i fari restano accesi per un minuto dopo la chiusura delle porte dall’esterno: un tempo per non restare al buio, soprattutto di notte, soprattutto se sei donna, soprattutto in città sempre più cupe e insidiose. L’ultraviolenza c’è ma non è un film di Stanley Kubrick: il set è l’Italia.

Piccola sequenza degli orrori più recenti. Milano, 6 agosto: una filippina viene ammazzata per strada, in viale degli Abruzzi. Passava di lì: ed era la prima donna che un ragazzo, appena lasciato dalla fidanzata, aveva incrociato. L’aveva annunciato. Oleg Fedchenko: “Uccido la prima che incontro”: detto, fatto. Milano, 10 ottobre: un tassista – che non è un pirata della strada, che non va veloce, che si ferma per scusarsi – viene massacrato dopo aver involontariamente investito un cagnolino, sprovvisto di guinzaglio. Roma, 8 ottobre: una ragazza viene ugualmente spedita in coma da un pugno dopo una lite – come si dice, per futili motivi – in una stazione della metropolitana. Passano alcuni minuti prima che la signora (che morirà) venga considerata dai passanti come un essere umano in grande difficoltà e non come un pacco. O peggio, qualcosa di ostile, di pericoloso, qualcosa di cui avere paura. Pescara, 14 ottobre: una ragazza chiede a un signore che sta facendo pipì di fronte al suo portone di andare a farla in un bagno pubblico, lui la prende a calci e pugni.

Se n’è scritto molto: abbiamo perso il senso dell’essere una comunità, perché non abbiamo saputo adattarci agli immensi cambiamenti di un tempo troppo veloce che non prevede, tra le opzioni, l’inclusione. Conosciamo e produciamo solo processi di esclusione, espulsione o eliminazione. Ma è soprattutto il sentimento del prossimo come creatura a essere svanito. Nietzsche decretò la fine di Dio, possiamo forse dichiarare anche la fine dell’altro. Che significa? Che i valori sono evaporati – ed è quasi un’epidemia – fino all’ultimo, al più importante, quello del rispetto di un’altra vita che non sia la propria.

Ma in concreto? Tutti questi fatti sembrano dirci che gli spazi di una socialità ormai completamente schizofrenica sono insicuri. La strada, la piazza, il bar: lì, fuori dalle mura domestiche, ti può succedere di tutto. È vero e questo accade – anche – perché nell’ansia di anestetizzare l’inadeguatezza, droghe di vario genere sembrano una soluzione. Ma dare ascolto a questa vocina è assai più pericoloso, senza contare che le mura domestiche sono anche precipizi: basta dare un’occhiata alle percentuali altissime di reati violenti che si consumano in famiglia. Rintanarsi in casa può solo amplificare nevrosi e paure. E causare impoverimento. Anche la tecnologia si aggiorna, recepisce le evoluzioni barbariche e cerca contromisure. Ben vengano, come i comportamenti di auto-tutela: nessuno ti restituisce ciò che il dolore della violenza ti porta via.

Però non possiamo diventare più fobici di così, oppure la paura armerà le mani anche delle persone più consapevoli. Dovremmo restituire l’umanità ai nostri rapporti. Riprendere contatto con i nostri simili più attraverso occhi e mani che attraverso e-mail e sms. Così se dovessimo sentire l’irresistibile impulso di massacrarlo di botte, non ci sembrerà di cancellare un ologramma. Ma una persona. È l’ultimo confine: se lo valichiamo diventeremo, davvero, post-umani.

s.truzzi@ilfattoquotidiano.it

Il Fatto Quotidiano, 17 ottobre 2010

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