Dei 24 nuovi stellati proclamati per il 2010 dalla nota guida Michelin è l’unica donna. Professionalità, intelligenza e preparazione sono le carte che ha messo in gioco per realizzare una carriera brillante che di anno in anno le dà sempre maggiori soddisfazioni. Ad uno degli eleganti tavoli di Glass Hostaria in Trastevere, Cristina Bowerman racconta a ilfattoquotidiano.it un po’ di sé e svela riflessioni interessanti, a tratti estreme come in fondo lo sono molte delle sue scelte, in cucina così come nella vita

Dalla laurea in Giurisprudenza a Bari a quella in Arti Culinarie ad Austin, Texas. Com’è andata?

Sono sempre stata incuriosita dalle lingue e dalla cultura di altri paesi, sin da piccola. Dopo la laurea in Italia ho sentito l’esigenza di spostarmi, di conoscere altre situazioni, altre possibilità. Grazie anche al sostegno morale della mia famiglia ho deciso di trasferirmi in America e oggi sono fiera di potermi considerare completamente biculturale. Ho lavorato a lungo in uno studio grafico nel sud della California ma la passione per la cucina mi ha sempre accompagnato. Dopo qualche anno mi sono iscritta al corso di laurea presso Le Cordon Bleu College of Culinary Arts ad Austin e mi sono data un tempo di dieci anni per riuscire in questa carriera.

E ci è riuscita. Come?

All’inizio ho puntato tutto sulla preparazione. Nel corso con me c’erano molte donne, ma la percentuale di uomini era sempre più alta. Per poter avere delle possibilità reali ho studiato moltissimo. Ero il contrario esatto dello stereotipo del cuoco maledetto: piuttosto che uscire a bere, appena finito il turno preferivo trascorrere il mio tempo ad approfondire e studiare perché in America il merito vale davvero e io potevo contare solo su quello. Mi sono laureata con il massimo dei voti e non ho saltato un solo giorno di lezione.

Ha lavorato come Chef negli Stati Uniti e poi, dopo 15 anni, è tornata in Italia…

Sì. Non avevo mai lavorato in una cucina italiana ed è stata un’esigenza formativa naturale. Certo la situazione che ho trovato qui era, ed è ancora oggi, molto diversa. In Italia, l’alta cucina sembra non essere considerata come luogo adatto alle donne, non quanto la cucina di casa o delle trattorie. E’ come se non si riuscisse ancora a declinare al femminile l’idea di professionalità, intelligenza, preparazione e creatività. Nell’immaginario collettivo rimangono scisse completamente le due figure: da una parte la madre e la casalinga e dall’altra la donna in carriera. Questo succede in cucina come in molti altri ambienti. C’è da dire che le istituzioni italiane non aiutano le donne che vogliono dedicarsi al lavoro in un certo modo. Io, per fare un esempio, sono più di sei mesi che cerco senza successo un asilo per mio figlio, e non intendo pubblico ma privato!

Oltre al problema culturale, esistono differenze fisiologiche tra uomini e donne tali da favorire i primi in questo mestiere?

Nessuna differenza oggettivamente sensibile. Anche la storia della forza fisica non è reale in questo ambito. I ristoranti dove si fa alta cucina hanno spesso pochi coperti e onestamente non mi è mai capitato di vedere Chef stellati sollevare sacchi da 25 chili di farina. Faticano molto di più le signore in casa o quelle che lavorano nelle osterie tradizionali, e non sono poche. Ovviamente le donne, a differenza degli uomini, partoriscono e a questo proposito c’è una cosa che voglio dire, consapevole del fatto che possa risultare impopolare: per l’ascesa femminile nel mondo del lavoro la legge a protezione della maternità è un’arma a doppio taglio. Chi deve assumere ci pensa due volte a ingaggiare una donna se deve immaginarla incinta dopo pochi mesi e poi a casa per chissà quanto tempo. Critico l’abuso di questa protezione, abuso che ha trasformato una legge apparentemente giusta in un boomerang per molte di noi. E per restare su temi impopolari, credo anche che i contratti nazionali andrebbero aboliti, mantenendo solo le garanzie e le protezioni primarie (minimo garantito e sicurezza sul lavoro). Così come sono ingabbiano il rapporto tra datore di lavoro e lavoratore, non c’è nessuna gara per accaparrarsi il migliore né, conseguentemente, nessuna spinta a migliorarsi e questo appiattisce la crescita intellettuale dell’intero Paese.

Parole decise, un po’ come la sua cucina. Gli accostamenti più arditi che ha sperimentato?

Agnello, caffè, quinoa soffiata e ciliegie, per esempio. Oppure risotto con carciofi, ostriche e crème fraîche e il coniglio con melograno e liquirizia. Molti di questi piatti nascono dalla ricerca e dallo studio su un ingrediente a me caro o che ha un riverbero particolare nella mia memoria. Poi immagino i piatti e li scrivo. A volte li disegno.

A quale piatto della tradizione pugliese si sente più legata?

Fave e cicoria, sicuramente. Il fatto di essere biculturale non è un modo per rinnegare le origini, anzi. Amo la tradizione ma credo che non sia quello il contesto adatto alla sperimentazione. Un piatto tradizionale rimane tale fino a quando segue una ricetta popolare che in genere n’esalta le caratteristiche migliori. Preferisco invece la pura invenzione.

Per concludere, Chef, ci svela qual è il suo Piacere Quotidiano?

Niente di meglio che alzarsi la mattina, sorseggiare caffè e leggere quotidiani. Italiani e internazionali, ovviamente.

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