Silvio Berlusconi ha chiaro il problema: se il governo non ce la farà a sopravvivere all’allontanamento dal Pdl dei 34 deputati vicini a Gianfranco Fini, il Quirinale potrebbe non sciogliere le Camere ma favorire un governo tecnico per assicurare la tenuta finanziaria del Paese e approvare la probabile manovra-bis in autunno. Oltre a quello di Giulio Tremonti, il nome che circola per la guida di un esecutivo di transizione è quello di Mario Draghi.

Il ministro del Tesoro ha dimostrato in questi mesi, in cui ha preso in mano tutta la gestione della manovra e della politica economica, quale idea abbia di come governare il Paese. E lo stesso, sia pure con i modi e i toni che gli impone la sua funzione di governatore della Banca d’Italia, ha fatto Draghi, uno degli invitati a casa di Bruno Vespa, un mese fa, la sera in cui Berlusconi inseguiva la stabilità della base parlamentare del governo, cercando un’intesa con l’Udc di Pier Ferdinando Casini.

Evasione e legalità. Per ora è solo un esercizio teorico, ma nelle prese di posizione del governatore nell’ultimo anno si può leggere un programma di governo. La priorità per il governo Draghi sarebbe la questione fiscale. A margine delle considerazioni finali il 31 maggio, l’evasione è stata definita “la vera macelleria sociale” e in un’altra occasione informale Draghi ha ribadito che il carico del fisco è distribuito in modo criminalmente diseguale. Il primo punto, quindi, è far pagare le tasse a chi non le paga, anche perché il governatore è convinto che la dimensione dell’imponibile sottratto al fisco renda l’Italia pericolosamente simile a Grecia e Portogallo, prossimi al collasso finanziario. Nella testa – e nei testi – di Draghi è chiaro come procedere: si fa pagare di più chi non paga per ridurre subito le aliquote, “e il nesso tra le due azioni va reso visibile ai contribuenti”, ha detto nelle considerazioni finali. Proprio in quell’occasione ha parlato per la prima volta in modo esplicito del problema delle “relazioni corruttive tra soggetti privati e amministrazioni pubbliche”, talvolta “favorite dalla criminalità organizzata”. Alludeva alla “cricca” degli appalti, con Guido Bertolaso e Angelo Balducci, ma le parole si adattano anche alla cosiddetta P3, l’alleanza occulta tra faccendieri e uomini di governo. Uno di questi, il coordinatore del Pdl Denis Verdini, era presidente fino a pochi giorni fa del Credito Cooperativo Fiorentino. Ora Bankitalia ha commissariato la banca per le gravi irregolarità nell’amministrazione.

Priorità ai conti. Draghi non si è mai dimenticato un viaggio in Jugoslavia alla fine degli anni Ottanta, quando lavorava per la Banca mondiale. Il ministro del Tesoro bosniaco gli spiegò che non si preoccupava di avere un bilancio in deficit perenne, perché tanto i loro titoli di Stato li comprava la Slovenia. Un po’ come se la Campania acquistasse titoli di debito emessi dalla Lombardia. Un trucco contabile che, prima o poi, si paga. Europeista per necessità, oltre che per convinzione, Draghi quindi pensa che sia necessario costringere gli Stati (Italia inclusa) al rigore anche subordinando un po’ di democrazia al rispetto dei parametri di bilancio. Magari togliendo il diritto di voto al Parlamento europeo ai rappresentanti di Paesi che trasgrediscono troppo i vincoli di Maastricht sul debito e il deficit.

Più tagli che tasse. Risanamento subito, questa sarebbe la missione di un eventuale governo Draghi. E l’allievo di Franco Modigliani all’MIT di Boston ha una ricetta che potrebbe piacere anche ai berlusconiani: i conti non si salvano aumentando le tasse, che sono poco “growth friendly”. Cioè frenano la crescita più dei tagli di spesa. La politica economica draghiana si fa quindi riducendo gli sprechi (cioè quelle sacche di spesa pubblica di cui beneficiano solo piccoli gruppi) e non con imposte patrimoniali o alzando le aliquote, misure che finirebbero per soffocare una ripresa già flebile. Al limite vanno bene anche i tagli orizzontali (automatici e che non distinguono tra virtuosi e spreconi) amati da Tremonti, tutto pur di evitare il pasticcio di questa manovra dove le riduzioni sono quasi sempre discrezionali. E infatti Bankitalia non si è mai spinta ad approvarla, l’aggettivo più lusinghiero è stato “inevitabile”.

Federalista, ma… Un governo Draghi potrebbe trovare l’appoggio perfino della Lega. Perché il governatore è un federalista convinto (sia pure con riserva: tutto dipende da come si fissa il parametro dei costi standard, su cui calcolare i trasferimenti dallo Stato alle Regioni). In un famoso convegno del 2009, poco gradito da Tremonti, Draghi ha chiarito che bisogna finirla con politiche economiche meridionaliste, piani straordinari e istituzioni ad hoc (come la tremontiana Banca del Mezzogiorno). Meglio concepire “politiche generali, che hanno obiettivi riferiti a tutto il Paese, e concentrarsi sulle condizioni ambientali che rendono la loro applicazione più difficile o meno efficace in talune aree”. Musica per le orecchie leghiste: basta finanziamenti a fondo perduto al Sud. E il federalismo fiscale può essere un utile strumento a patto che sia ambizioso e non punti soltanto a trasferire il potere di spesa a livello locale per sopperire alla paralisi del governo centrale.
Non si conosce l’opinione di Draghi su come modificare la legge elettorale (uno dei probabili compiti di un eventuale esecutivo tecnico).

Le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia, nell’autunno 2011, con un grande convegno organizzato da Bankitalia sulla storia e lo sviluppo del Paese, potrebbero essere un’utile occasione per chiarire i dettagli del “programma Draghi”. Sempre che, per allora, il governatore non abbia già traslocato da tempo a Palazzo Chigi.

Da il Fatto Quotidiano del 3 agosto 2010

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