Militari italiani in Niger, altro che lotta ai jihadisti. In ballo miniere della Francia e risorse del Sahel

31 Dicembre 2017

Tutto molto persuasivo, lineare, morale, rassicurante. I buoni e i cattivi, le frontiere dell’Europa che si spostano in Africa, noi che andiamo in Niger per fermare incauti migranti diretti verso la trappola libica e per “combattere il terrorismo”. Un unico dubbio: considerando il labirinto nel quale ci stiamo per affacciare, per una volta non sarà il caso, invece, di spiegare agli italiani che la realtà è ambigua, contorta, complicata?

Non che le motivazioni ideali cui il governo si appella siano fasulle, ma quantomeno dovranno farsi strada dentro dilemmi acuminati che non andrebbero taciuti. Per cominciare: il contingente italiano sarà complementare alle forze che la Francia ha schierato in Niger non tanto per “combattere il terrorismo” quanto per difendere i propri interessi – soprattutto le miniere di uranio vitali per il fabbisogno energetico francese, che per l’80 per cento è soddisfatto da centrali nucleari. Le concessioni relative alle miniere – prevedano o no, come si sospetta, clausole segrete – hanno arricchito una classe dirigente sovrabbondante di militari, non certo la popolazione, che è agli ultimi posti in tutte le classifiche mondiali sullo sviluppo umano. Parigi, che in Niger dal 1890 fa e disfa, non è riuscita a costruire un’economia in salute né un sistema politico stabile.

In genere la politologia internazionale classifica il Niger come “anocracy”, traducibile in “democratura”, cioè un regime traballante che mescola tratti democratici a tratti autoritari, e in ragione della sua inefficienza genera sollevazioni. La più pericolosa per l’unità nazionale tra il 2007 e il 2009 riunì varie popolazioni nomadi del nord, in gran parte tuareg, in un “Mouvement des Nigeriens pour la justice” connotato da un aspro risentimento anti-francese (chiedeva la revisione delle concessioni sull’uranio, poi avvenuta, e controlli sulle scorie radioattive). Negli anni successivi si sono aggiunte per successive metamorfosi formazioni jihadiste transfrontaliere (al-Qaeda, Boko Haram, Mujao), che l’esercito del Niger, 12mila effettivi guidati da consiglieri militari francesi, fatica a contenere.

Tutto questo pone all’Italia tre ordini di problemi. Innanzitutto l’identificazione del nemico. Sul confine che gli italiani dovranno sorvegliare vanno e vengono assassini devoti alla jihad globale, jihadisti che in realtà combattono per cause berbere, fornitori d’armi di milizie libiche, milizie tribali di mutevole lealtà, nuovi schiavisti, mercanti per i quali il contrabbando nel deserto è una tradizione antica. Distinguere gli uni dagli altri non è facile, confonderli potrebbe essere pericoloso. Finirebbe per trasferire sui soldati italiani le ostilità col quale molti berberi guardano ai confini nazionali, in particolare i tuareg. Per secoli padroni del Sahara, che traversavano trasportando sale e schiavi, i tuareg hanno vissuto come una catastrofe l’introduzione, nel dopoguerra, dei confini nazionali. I posti di frontiera spezzavano le rotte dei loro commerci, li spossessavano del deserto, e con quello della loro identità. Negli anni Sessanta tentarono di riprendersi il Sahara con attacchi dissennati, caricando sui cammelli nidi di mitragliatrici; poi è parso che accettassero la sconfitta.

I tuareg che incontrai in Mali trent’anni fa coltivavano patate, destino baro per una società vissuta nell’incantesimo di un medioevo eterno. L’islam praticato dall’aristocrazia contemplava i tormenti poetici dell’amor cortese, e perfino il diritto della donna sposata a giacere con chiunque desiderasse, purché la sfrenatezza non si protraesse oltre il terzo giorno e fosse motivata da grave depressione (autocertificata, mi fu detto). Che musulmani così eretici siano stati attratti dalla puritana al-Qaeda potrebbe dipendere da quel che l’idea del Califfato promette agli ex signori del deserto: un Sahara liberato dalle frontiere di Stato e restituito alle loro carovane.

In secondo luogo, bisognerebbe capire cosa si intenda per “combattere il terrorismo”. Cosa intenda Macron, il capofila, cosa gli europei, e cosa il governo del Niger. Di solito gli occidentali “combattono il terrorismo” a questo modo: danno sostegno militare a regimi pericolanti con i quali fanno buoni affari, e si girano dall’altra parte mentre quelli sgovernano, depredano, torturano, incoraggiano alla rivolta armata tanti che non avevano quella inclinazione. I risultati sono sconfortanti ovunque, anche in Africa. Un buon terzo della Francafrique, il complesso delle 14 ex (ma non tanto ex) colonie francesi nel continente, è funestato dal fondamentalismo armato.

Parigi finora si è affidata a politiche ispirate dal conglomerato di interessi che intreccia i suoi apparati militari, corporates intimamente connesse allo Stato e consorterie africane. Ma in Niger presto sarà in gioco la pelle dei soldati inviati dall’Italia, che pertanto dovrebbe vedersi riconoscere il diritto di co-decidere una strategia complessiva, non solo militare. Quale?

Infine: il Niger interessa agli europei non tanto perché lo minacci il terrorismo, ma perché è dentro due grandi partite. La prima vede europei e cinesi contendersi le risorse del Sahel. Nella seconda il Niger figura come un importante retrovia del conflitto in Libia, a sua volta terminale dello scontro che dall’Atlantico al Golfo Persico oppone due fronti musulmani lungo il crinale tracciato dalle primavere arabe. Di qua i fautori della Restaurazione appoggiati da Trump e da Netanyahu, di là il variegato club che tifa per le rivoluzioni. L’Europa si barcamena. In Libia il barcamenarsi adesso vede Parigi e Roma blandire il generale Haftar, capo di una congregazione di milizie, per convincerlo a non ostacolare le elezioni che l’Onu conta di tenere tra qualche mese. Haftar nicchia. Ma intanto si fa costruire un aeroporto, a Khadim, dove presto dovrebbero atterrare contractors americani, cargo di forniture militari e alcuni bombardieri che gli Emirati Arabi dislocherebbero in Libia, verosimilmente non per lanciare sulla popolazione volantini elettorali. A loro volta le milizie nemiche di Haftar stanno di nuovo ricevendo armi via Sudan, un canale che Khartum aveva chiuso in primavera su pressione egiziana e saudita ma ha ripreso a funzionare. È abbastanza per sospettare che non solo le elezioni libiche, ma anche il salvataggio delle migliaia di migranti promesso da Minniti, siano molto meno certi di quanto si racconti.

Non si può chiedere a governi e Stati maggiore di raccontare la verità, tutta la verità, su scelte di politica estera che richiedono riservatezza e circospezione. Ma omettere sempre, ridurre la complessità a favoletta, indulgere al racconto delle magnifiche sorti e progressive per prevenire le critiche, produce poi l’Italia inebetita che s’infilò nella guerra di Libia senza alcuna consapevolezza della realtà e dei propri interessi. Con l’aria che tira, non possiamo permettercelo.

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