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Migranti e lavoro: parlano male e pensano peggio

20 Aprile 2023

Come parlano male. All’inaugurazione del Salone del mobile di Milano la presidente del Consiglio ha detto: “Credo che prima di arrivare al tema immigrazione si debba puntare, per esempio, sulla possibilità di coinvolgere molte più donne nel mercato del lavoro”. Nel 2018 la non ancora premier Giorgia Meloni ad Atreju dava una versione diversa, sosteneva cioè che visto che servono immigrati, è meglio “prenderli in Venezuela” perché ogni società ha diritto di privilegiare un’immigrazione “compatibile con la propria cultura” (era assente alla lezione sul valore della diversità): in Venezuela sono cristiani. Così non si verificherebbe la temuta “sostituzione etnica”, recentemente riesumata dal cognato d’Italia, ministro Francesco Lollobrigida: “Non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica: gli italiani fanno meno figli e li sostituiamo con qualcun altro. Non è quella la strada”. Alla “risorsa dei migranti si attinga dopo che si è esaurita la richiesta interna di lavoro”. Del resto sappiamo da cotanto presidente del Senato che i migranti vengono qui in massa a causa di un malsano “tam tam ideologico”: “Andate in Italia che lì possiamo starci come vogliamo”. La famosa pacchia di Salvini.

Ma insomma: questi migranti servono o no? Nel Def si legge che un aumento della popolazione di origine straniera del 33% farebbe calare il debito pubblico di 30 punti, una contrazione del 33% lo farebbe aumentare di quasi 60 punti: parola del ministero dell’Economia, guidato dal leghista Giancarlo Giorgetti.

Dunque, a parte il fatto che i ministri dovrebbero mettersi d’accordo tra loro e con la loro presidente, c’è un tema che riguarda le parole, importanti perché nascondono il pensiero, anzi un’allarmante assenza di pensiero. Lavoro, diritti umani e povertà (solo per fare qualche esempio) sono, nelle dichiarazioni di chi ci governa e nel discorso pubblico più in generale, una mera questione numerica e di funzionalità. Serve manodopera? Prendiamo i poveri del Venezuela, che hanno fame, sono cristiani e più simili a noi (sono anche meno colorati di altri). Ma il lavoro non a caso è fondamento della Repubblica perché la Costituzione gli riconosce il valore sociale non solo di strumento che consente la sussistenza, ma soprattutto di “tramite necessario” per l’affermazione della persona, come si leggeva nel manuale universitario del Mortati. Non qualcosa che “serve” al sistema economico, ma che serve ai cittadini per la realizzazione piena di ogni individuo nel suo vivere dentro la società.

Stesso dicasi per l’immigrazione, un fenomeno complesso in cui non possono essere chiamate in causa unicamente le prospettive funzionali. I popoli si spostano da sempre (a causa di molteplici fattori, dalle guerre ai cambiamenti climatici, dai regimi dittatoriali alle crisi economiche) e oggi l’unico ragionamento che riusciamo a fare è quello dell’utilità. Il progresso non è sempre un miglioramento e l’impoverimento del pensiero, privo di qualunque visione a dispetto delle filippiche sull’identità e la tradizione, si traduce in un discorso sul vantaggio immediato, che non conosce né principi né etica. Quella che ascoltiamo tutti i giorni da dichiarazioni e talk show non è politica, è gestione contabile del presente, con particolare riguardo a vere e presunte emergenze. La società però non è un condominio a cui partecipare in base ai millesimi e i governanti non sono amministratori che si occupano del guasto dell’ascensore o del lavaggio scale. O almeno, non dovrebbe essere così.

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