28 ottobre 1922/1ª puntata

La Marcia di Roma, la “rivoluzione” che non c’è mai stata. Parola di Benito Mussolini

Storia di un bluff - Fu solo un’insurrezione che lo stesso Duce bollò poi come incompiuta. Ma venne creata come “evento” dalla propaganda nera e favorita dal “neutralismo” del sindacato e dal giubilo della Confindustria

Di Claudio Fracassi
4 Ottobre 2022

Una delle caratteristiche più singolari della Marcia su Roma di un secolo fa è che la Marcia su Roma non c’è mai stata. Si è trattato, se si vuole restare ancorati ad un tema comunemente chiamato “Storia”, di una mirabolante ed efficace costruzione propagandistica di Mussolini, imposta – attraverso gli appositi canali e le ossessive manipolazioni – all’intera opinione pubblica italiana ed europea. Tuttavia vale la pena di ricostruire i fatti, il clima, gli slogan, i mirabolanti racconti della Marcia, per capire come un evento sostanzialmente marginale diventò, nel senso comune del Paese, una “rivoluzione”, il fatto decisivo e fondatore di un nuovo regime. Va registrato che è stato lo stesso Duce, alla fine della sua parabola ventennale, a riconoscere che quella per vent’anni celebrata e festeggiata come la “rivoluzione del 28 ottobre 1922” in realtà non poteva fregiarsi di quella enfatica definizione, ma fu qualcosa di modesto e di più indefinibile, una “insurrezione” sostanzialmente incompiuta. Nella sua Storia di un anno scritta nel 1944 nell’ultimo rifugio fascista, a Salò sul lago di Garda, Mussolini arrivò a dare della storica Marcia questo riduttivo e amaro giudizio: “Che cosa fu la marcia su Roma?… Fu una insurrezione? Sì. Durata, con varie alternative, circa due anni. Sboccò questa insurrezione in una rivoluzione? No.

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Per vent’anni, tuttavia, la Marcia su Roma era stata presentata, falsificandola ed esaltandola, come l’evento fondatore del regime. Il giorno d’ottobre fu celebrato in tutta Italia, ogni anno, come festa nazionale, accompagnato da cerimonie ufficiali e da vacanze scolastiche, da monumenti e da Mostre. Nel testo unico delle Terze Classi elementari, a cura di Ottorino Bertolini, si poteva leggere: “Benito Mussolini aveva suscitato in tre anni un movimento gigantesco e disciplinato: il Governo allora al potere non aveva più ragione di esistere, e ad un cenno del duce venne travolto dalla Rivoluzione fascista. Il 28 ottobre 1922, per ordine di Benito Mussolini, tutti i fascisti d’Italia si mobilitarono; le città furono occupate, tre colonne di Camice nere marciarono su Roma. In alcuni luoghi si ebbero sanguinosi conflitti, in cui caddero diversi fascisti… Ottantamila fascisti entrarono nella città eterna, e sfilarono disciplinatissimi davanti al Re… Benito Mussolini si accinse alla titanica fatica di rinnovare l’Italia”.

Fino alla immediata vigilia della poi celebratissima mobilitazione fascista di cento anni fa, c’era stato fra i partiti e le forze economiche un noioso e dotto scambio di punzecchiature, di allusive proposte al governo (che si presentava come centrista, presieduto dall’onesto ma modesto avvocato di Pinerolo, Luigi Facta), di progettati e famelici rimpasti. Ma l’elemento veramente nuovo, era il progressivo logoramento delle regole della civile convivenza e della legalità all’interno della società, nelle campagne come nelle città. Un autorevole studioso, ex sindacalista divenuto tra i teorici più ascoltati del neonato fascismo di Mussolini, Agostino Lanzillo, aveva così teorizzato i principi di una nuova organizzazione della società: “Essa non è formata di cittadini, è bensì formata di produttori e di parassiti, di uomini forti e di uomini deboli, di nati per comandare e di nati per obbedire, di audaci e di vili, di creatori e di distruttori, di poeti e di materialisti”. Nel “Manifesto del futurismo” del combattivo intellettuale Filippo Tommaso Marinetti, che aveva ispirato subito dopo la prima guerra mondiale l’ideologia nascente del futuro duce, si elogiava la funzione della violenza: “Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità… Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno. Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il gesto distruttore… ”.

Il giovane Benito Mussolini, ex direttore dell’Avanti! e fondatore e direttore del Popolo d’Italia, si era così rivolto, due anni prima della cosiddetta Marcia su Roma, alle prime squadre di giovani che a Milano militavano nel nascente movimento fascista: “Arditi! Commilitoni! Io vi ho difeso quando il vigliacco filisteo vi diffamava. Rappresentate la mirabile giovinezza guerriera dell’Italia. Il balenio dei vostri pugnali e lo scrosciare delle vostre bombe farà giustizia di tutti i miserabili che vorrebbero impedire il cammino della più grande Italia”.

Negli anni del Dopoguerra (la terribile guerra ’14-’18), attraverso la militanza organizzata e la violenza della squadre, il movimento fascista aveva conquistato consensi; al punto che il grande vecchio della politica italiana, Giovanni Giolitti, aveva chiesto e ottenuto dal futuro duce, per le elezioni del 15 maggio 2021, l’adesione ad un “blocco Nazionale” contro i forti socialisti di Turati, i cattolici di Don Sturzo, gli appena nati comunisti e gli altri liberali. I fascisti erano entrati in parlamento in 35, una esigua e combattiva minoranza. Mussolini si era orgogliosamente seduto all’estrema destra. Ma non era quello il terreno adatto per la conquista del potere. Lo squadrismo fascista, e la ricerca del consenso, si svilupparono allora con azioni violente e organizzate nelle campagne, a partire dalla pianura padana. Fu la fondamentale palestra pre-Marcia del popolo di Mussolini, contro quello, prevalentemente socialista o anarchico, organizzato nelle cooperative di lavoro dei contadini. Così poco tempo prima della Marcia su Roma descrisse la situazione, in parlamento, un giovane deputato socialista veneto, Giacomo Matteotti: “Oggi in Italia esiste una organizzazione pubblicamente riconosciuta e nota nei suoi aderenti, nei suoi capi, nella sua composizione, nelle sue sedi, di bande armate, le quali dichiarano apertamente (hanno questo coraggio, che io volentieri riconosco) che si prefiggono atti di violenza, atti di rappresaglie, minacce, violenze, incendi e li eseguono non appena avvenga, o si pretesti che avvenga, alcun fatto commesso dai lavoratori a danno dei padroni o della classe borghese. È una perfetta organizzazione della giustizia privata”.

Fu in quel clima che maturò nel futuro duce la convinzione non tanto della conquista rivoluzionaria del potere, quanto dell’abile uso della violenza, o anche della sola propaganda della forza, per costringere gli avversari a piegarsi. Come scrisse un informato osservatore: “Mussolini pensa che l’‘atto insurrezionale’ sia inevitabile ma, come in tutte le circostanze, tiene a ridurre al minimo i rischi dell’impresa. L’ideale per lui è che tutto avvenga come se la Marcia su Roma avesse luogo, ma senza farla sino in fondo”. Il clima politico era dunque favorevole. In particolare, alcune delle forze politico-economiche organizzate erano incomprensibilmente “neutrali” (il sindacato) o addirittura entusiaste (la Confindustria). Il primo – molti dei cui aderenti antifascisti, nel Ventennio, finirono in galera, o nell’esilio, o furono trucidati – proprio alla vigilia della Marcia metteva in guardia i suoi aderenti, per la penna di un dirigente: “La Confederazione del Lavoro sente il preciso dovere, nel momento in cui la passione politica divampa e forze estranee ai sindacati operai si contendono estremamente il possesso del potere statale, di mettere in guardia i lavoratori dalle speculazioni e dalle sobillazioni dei partiti e di aggruppamenti politici intenzionati di coinvolgere il proletariato in una contesa dalla quale deve assolutamente rimanere apparato per non compromettere la sua indipendenza… ”. Quanto alla Confindustria, molti dei cui dirigenti avevano esborsato cospicui finanziamenti per l’operazione fascista, i suoi vertici sembravano toccare il cielo con un dito: “Le forze produttive della Nazione avevano necessità di un nuovo governo che assicurasse una volontà e un’azione… La classe industriale, pronta a qualunque sacrificio, deve appoggiare questo sforzo verso una sistemazione in cui si proclamano alfine il diritto della proprietà, il dovere del lavoro, la necessità della disciplina… ”. Alcuni dei più influenti industriali del nord – come vedremo – accompagnarono amorevolmente in treno da Milano a Roma Mussolini dal re, anch’egli apertamente soddisfatto per l’esito vittorioso di una Marcia inesistente, ma destinata a diventare Storia.

(1 – continua)

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