Fridays For Future: catastrofe clima, così stanno scomparendo i ghiacciai d’Italia

Nell'ultimo secolo i ghiacciai delle Alpi hanno perso il 50% della loro copertura. Di questo 50%, il 70% è sparito negli ultimi 30 anni. I ghiacciai alpini si stanno ritirando a una velocità senza precedenti. quelli al di sotto i 3.500 metri di quota sono destinati a sparire nel giro di 20-30 anni. E l'acqua sarà sempre più scarsa

Di Stefano Ditella (Fridays For Future Italia)
8 Settembre 2020

Eloquenti sono le fotografie scattate ogni anno sui ghiacciai alla fine della stagione estiva. Vengono messe a confronto con quelle del passato, quando le montagne erano coperte di neve anche in estate e le lingue di ghiaccio arrivavano a lambire i paesi delle vallate. Tutto questo non è che un ricordo e lo sarà sempre di più in futuro. Inverni relativamente miti, ondate eccezionali di calore, ritardo nell’arrivo della stagione fredda: gli ultimi 40 anni hanno visto un preoccupante ritiro dei ghiacciai alpini, che sono ormai diventati gli indicatori terrestri del cambiamento climatico, che ormai sappiamo benissimo essere antropogenico.

A partire dalla seconda metà dell’800, con la seconda rivoluzione industriale, le emissioni di gas climalteranti hanno iniziato ad aumentare ed è conseguentemente iniziato un processo di surriscaldamento globale, che ha causato e sta tuttora causando una progressiva fusione dei ghiacciai. Gli ambienti di alta quota inoltre reagiscono molto più velocemente al riscaldamento globale, con aumenti di temperatura anche doppi rispetto alla media globale (+2°C contro +1,1°C di riscaldamento) e ciò fa sì che il ritiro delle masse glaciali sulle montagne sia molto più rapido di quanto immaginiamo.

Come rileva il CNR, nell’ultimo secolo i ghiacciai delle Alpi hanno perso il 50% della loro copertura. Di questo 50%, il 70% è sparito negli ultimi 30 anni. I ghiacciai alpini si stanno ritirando a una velocità senza precedenti in migliaia di anni, tant’è che quelli al di sotto i 3.500 metri di quota sono destinati a sparire nel giro di 20-30 anni, in quanto le temperature medie degli ultimi 15 anni non ne permettono la sopravvivenza sotto questa quota.

Proprio qualche giorno fa, le misurazioni condotte dall’Università di Padova hanno portato i glaciologi ad affermare che il ghiacciaio della Marmolada, ridotto dell’80% rispetto del suo volume in soli 70 anni, passando dai 95 milioni di metri cubi del 1954 ai 14 milioni attuali, potrebbe non avere più di 15 anni di vita. Ma la situazione non è drammatica solo nelle Alpi orientali.

Anche nell’arco alpino occidentale i segni tangibili della crisi climatica sono all’ordine del giorno: in Valle d’Aosta il ghiacciaio Planpincieux, sul Monte Bianco, ha minacciato nelle scorse settimane di collassare a valle con i suoi 500 mila metri cubi di ghiaccio, mentre dall’altro lato delle Alpi, in Svizzera, il ghiacciaio Turtmann si è letteralmente sbriciolato sotto gli occhi increduli dei turisti, fortunatamente senza causare gravi conseguenze.

C’è poi il problema del permafrost alpino, uno strato di suolo perennemente gelato spesso alcune decine di metri, che sta però iniziando a fondere a causa dell’aumento della temperatura media del globo. Ciò comporta un potenziale rischio per la liberazione di enormi quantità di gas (metano e CO2, notoriamente climalteranti) e patogeni sconosciuti presenti da millenni al suo interno. Ma non solo, perché la degradazione del permafrost in ambiente alpino accelera marcatamente i fenomeni franosi, come quelli registrati nelle ultime settimane sul Monviso, rappresentando un elevato pericolo per gli escursionisti.

Sono diversi gli enti che monitorano l’evoluzione dei fenomeni in ambiente glaciale e periglaciale, da Arpa al CNR, al Comitato Glaciologico Italiano, quest’ultimo unico al mondo nel suo genere, in quanto monitora i ghiacciai alpini da più di 100 anni ed ha dunque ha disposizione una lunga serie di misurazioni che ci permettono di quantificare le masse di ghiaccio che abbiamo perduto nell’ultimo secolo.

Le campagne di misurazione, che hanno luogo ogni anno verso la fine di settembre, ci restituiscono un’immagine sempre più drammatica della situazione: l’arretramento dei fronti glaciali appare inarrestabile e sempre più rapido e i bilanci di massa (tra l’accumulo invernale e l’ablazione estiva) sono sempre più negativi. Infatti – spiega Marta Chiarle, glaciologa e ricercatrice del CNR, responsabile delle campagne glaciologiche per l’arco alpino occidentale – “Negli ultimi tempi, a discapito di annate con precipitazioni nevose relativamente abbondanti, la fusione estiva ha inciso negativamente sui ghiacciai in caso di forti ondate di calore o con il ritardo nell’arrivo della stagione fredda. Non è un caso che l’ablazione termini addirittura negli ultimi anni a novembre, per cui i dati raccolti a settembre risultano molto spesso incompleti”.

Nonostante il ciclo di accumulo invernale e fusione estiva si ripeta ogni anno, da ormai alcuni decenni l’alimentazione nella stagione fredda non è riuscita però a compensare l’ablazione estiva. È come ricevere lo stipendio e spenderlo tutto, usando anche i risparmi accumulati negli anni precedenti, che sono di vitale importanza, fino a non avere neanche più un euro. Una volta scomparso un ghiacciaio, sono perdute per sempre le sue risorse idriche, che in estate, in assenza di neve, sono fondamentali per l’approvvigionamento idrico.

Dai ghiacciai delle Alpi dipende infatti gran parte della vita e dell’economia della Pianura Padana. La loro scomparsa non riguarda solo qualche specie sconosciuta in via di estinzione, ma impatterà in modo diretto sulle nostre vite: niente ghiacciai significa dire addio ad una risorsa idrica importante, sia come risorsa primaria sia per le attività agricole, quando in futuro l’acqua sarà sempre più scarsa. Se oggi le ondate di siccità causano già agli agricoltori danni per miliardi di euro, immaginiamo tra qualche decennio, quando l’acqua a disposizione per irrigare i campi sarà molta meno e interi campi di grano, mais e pomodori saranno totalmente a secco.

I segnali non sono affatto rassicuranti: ad esempio lo scorso anno in Piemonte alcuni rifugi alpini hanno dovuto chiudere per la prima volta a settembre per mancanza d’acqua. Dalle zone montane a quelle di pianura gli scenari potrebbero essere drammatici. Inoltre, per mancanza di fondi, non ci sono ancora studi approfonditi in merito alla qualità delle acque che fonderanno dai ghiacciai in futuro. Al momento non si può sapere se l’acqua intrappolata nel ghiaccio da milioni di anni sia potabile o meno, poiché, a causa del riscaldamento globale, non è la stessa che gela e fonde ogni anno.

Nonostante il problema sia grave ed evidente, la percezione del rischio non c’è in gran parte dell’opinione pubblica, pervasa da una narrazione superficiale da parte dei media, senza contare il totale disinteresse da parte della classe politica. La cattiva notizia è che dobbiamo essere consapevoli che nei prossimi decenni avremo a disposizione risorse idriche sempre più limitate. La buona notizia è che siamo ancora in tempo per scongiurare gli effetti più drammatici della crisi climatica e della potenziale crisi idrica che ne scaturirà. Serve però un’azione politica forte e decisa, per invertire la rotta, diminuire drasticamente le emissioni di gas serra e contenere il surriscaldamento globale entro i +1,5°C.

È per questo che Fridays For Future Piemonte e Valle d’Aosta saranno il 5-6 settembre al ghiacciaio di Pré de Bar, in Val Ferret (Valle d’Aosta), per mettere in scena un flashmob d’impatto e portare attenzione e consapevolezza sul tema, informando i turisti che si troveranno lì a godersi l’ultimo sole estivo.

Rompiamo il silenzio, diamo voce alla scienza, perché questo ci riguarda, questa è la crisi climatica. Ed è qui, ora.

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