Dal cinema ai gadget

Lady Diana, la ribelle fa sempre parlare di sé

Il regista Larraìn sta realizzando un film sulla principessa Intanto i suoi abiti continuano a essere venduti all’asta per ottocento mila sterline

27 Luglio 2020

La fiaba, la tragedia, ma soprattutto l’icona che ha scatenato il mito. Serve scavarci dentro per provare a capirlo, almeno un po’. Con questi presupposti si annuncia il progetto Spencer, il nuovo film di uno dei più talentuosi registi in circolazione, il cileno Pablo Larraìn, sedotto dalla figura di Lady Diana di cui ritrarrà – attraverso il volto bello e misterioso di Kristen Stewart – un emblematico weekend dell’inverno 1992. Una fascinazione “leggendaria e tragica” non dissimile a quella che l’aveva spinto verso un’altra figura femminile cardine del 900, Jacqueline Kennedy Onassis, scolpita di bellezza e tragedia nel 2016 in Jackie. Due first lady prototipi assoluti di modernità applicata alla donna che affianca l’uomo di potere, tanto reale (un presidente americano) quanto simbolico (un erede al trono britannico).

Domanda ovvia: perché riagganciare l’icona della compianta principessa di Galles proprio ora? Quanta attualità si cela nella fiaba triste di una ribelle compressa ancorché attivista glamour e pop?

Ebbene, riaprendo le teche mediatiche si scopre che l’iconologia di Lady D. – a distanza di 23 anni dall’incidente fatale – resta di un’attualità sconcertante. Sintomo che talvolta l’eternità insita nel concetto di mito non esclude la pertinenza alla news, con tanto di rumors datati alla prima settimana di questo luglio, il mese a lei topico per nascita (1° luglio 1961) e matrimonio (29 luglio 1981). Già, perché “la donna più fotografata del mondo” (insieme alla sorella di simboli Grace Kelly) riesce ancora a far parlare di sé con lanci da cover, l’ultimo dei quali azzarda un’ipotesi che si sarebbe salvata se avesse saldato la cintura di sicurezza. Complice anche la top serie tv Netflix The Crown (a cui si aggiungerà una sesta e ultima stagione), la rampolla Spencer e principessa di Galles (ma non più Altezza Reale dopo il divorzio), è tornata in auge anche grazie alle parole dell’attore Josh O’Connor interprete del principe Carlo. Intervistato su Vanity Fair, il performer ha parlato più di Diana che non del suo personaggio, dialogando sul rapporto che “in realtà” ci sarebbe stato fra i due sfortunati sposi. Ma non solo. La “principessa del popolo”, a cui l’amico Elton John dedicò la struggente Candle in the Wind, conta ancora centinaia di fan club nel mondo, continua a guidare le aste dei propri abiti (siamo sulle 800mila sterline a pezzo) e a vendere tramite Pinterest la propria paper doll targata Etsy con tanto di corredo deluxe a 16,62 euro. Non è un caso, anzi, è la conferma conclamata di un immaginario collettivo inesauribile da quel fatidico Royal Wedding, passando per l’incoronazione mediatica del Time nel 1999 fra le 100 persone più influenti del XX secolo, nonché il sondaggio del 2002 della BBC che la mise al 3° posto fra i 100 Greatest Britons di sempre, scavalcando persino Shakespeare.

Numeri e record a margine, spiegare la seduzione tuttora intatta di questa figura unica nel suo genere implica un viaggio che parte da lontano, agganciato tanto agli archetipi universali quanto ai paradigmi della modernità. Lo sa bene Paola Jacobbi, giornalista e docente di storia dello Star System allo IED di Milano, che la “Dianology” l’ha approfondita e fatta studiare ai propri studenti. “Diana è un mito ribelle che assorbe due grandi cliché: quello della ribellione e quello della tragedia, esattamente come Marilyn Monroe e James Dean. Rispetto ai due attori, tuttavia, la principessa ha amplificato le misure, perché la sua ribellione è avvenuta nei confronti del sistema costituito per eccellenza, la monarchia britannica. E il destino sembra averla punita nella maniera più tragica”. Secondo Jacobbi “questa figura fragile e forte insieme, costretta in un matrimonio sbagliato, trova la sua persistenza nella capacità di identificazione con la donna qualunque, universalmente collocata nel tempo e nello spazio, qui sublimata dall’aura fiabesca e mediatica. Lei era una nobile ma si comportava da commoner, era alla moda, figlia del suo tempo, ma tale tempo ha contribuito a mutare nell’immaginario. Diana – a differenza di Jackie che è stata la prima influencer della Storia – ha sdoganato il fashion e il pop soprattutto quando è uscita dal feudo di palazzo: lo si è visto dai partecipanti al funerale gremito più dallo star system che dall’aristocrazia. Mentre ha tenuto in vita il senso più tradizionale della fiaba delle principesse – una maestra d’asilo che diventa protagonista del Royal Wedding – ha aperto la strada alle nuore, perché i suoi figli inconsciamente hanno scelto mogli simili alla madre, lontane dal sistema e vicine a quell’idea di deviazione dalla norma che era diventata la regola di Diana. Kate e Meghan, infatti, sono il risultato sdoppiato di ciò che lei riassumeva: l’emancipazione dentro la tradizione da una parte e la ribellione totale dall’altra. Sono certa che se fosse viva, Diana sarebbe ancora una cover lady oggi, con una popolarità immutata ma ancor più positiva”.

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