La biologa romana Emanuela Evangelista premiata da Mattarella

Istruzione, pc e sanità: l’italiana che ha scelto di vivere (e aiutare) l’Amazzonia

Di Paolo Dimalio
24 Giugno 2020

Lungo le vie di Roma per ritirare l’onorificenza del Quirinale, il 20 febbraio scorso, Emanuela Evangelista s’è tappata le orecchie con le mani: “C’è un inquinamento acustico folle, nella Capitale, ero abituata al silenzio dell’Amazzonia e non sopportavo quel frastuono”.

52 anni, laurea in biologia, nata a Lanuvio, paesino dei Castelli alle porte di Roma.

Da due decadi Emanuela Evangelista vive nella foresta, in Brasile sul fiume Jauaperì: nemmeno la pandemia la “sfratta” dal villaggio di Xixuaù. “Qui lo stiamo aspettando, il virus – dice rassegnata Emanuela -, a 80 km c’è una comunità di indigeni con 20 contagiati e un decesso, il 90% dei comuni in Amazzonia conta almeno un positivo”. Problema: l’ospedale più vicino, a Manaus, dista 400 chilometri. Mica di strada asfaltata: il viaggio si fa a piedi (tra la selva fitta) o in barca lungo il fiume. E se si arriva sani e salvi, la cura è incerta: “Mancano tamponi, letti e respiratori per le terapie intensive – dice la biologa -, i nativi dell’Amazzonia rischiano il genocidio con il Covid”. Ecco perché Emanuela ha ricevuto il riconoscimento dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella: il suo lavoro, per la foresta e i suoi abitanti, ha dato frutti.

Ad esempio: “Grazie al suo contributo, per la prima volta nel villaggio c’è una generazione di bambini non analfabeti”, è scritto nel comunicato del Quirinale. “Falso – corregge Emanuela -, il merito va all’ex presidente Lula, che assegnò un sussidio in denaro alle famiglie dell’Amazzonia che mandavano i figli a scuola”. È verissimo, però, l’apporto della biologa all’istruzione degli indigeni. Emanuela non lo ammette, ma il progresso in foresta dipende anche da lei, specie per le cure mediche e l’economia locale. Ma torniamo alla scuola: “Con gli incentivi allo studio, gli indigeni hanno iniziato a reclamare istruzione – racconta Emanuela -. noi abbiamo raccolto donazioni per costruire gli edifici scolastici, le amministrazioni comunali hanno reclutato e stipendiato i professori”. Così i ragazzi sono entrati in aula. Ora in Amazzonia si legge, si scrive e c’è lavoro da insegnante. Anche curarsi, oggi, è più facile nella foresta: “Abbiamo realizzato un ambulatorio e formato i nativi – dice la biologa -, assunti poi dai comuni come infermieri”. Lo schema è collaudato: le autorità pagano i cittadini come insegnanti e operatori sanitari; Emanuela insegna loro il mestiere e costruisce infrastrutture, grazie al suo team e alle donazioni. La biologa dei Castelli ha creato “Amazônia Onlus” (a Milano) e la fondazione “Amazon charitable trust” (a Londra), per raccogliere fondi destinati alla foresta.

Qui, dopo la scuola e la sanità, è arrivato reddito e lavoro: i nativi raccolgono e vendono le noci dell’Amazzonia (apprezzate in Europa) e da un po’ accolgono visitatori nelle loro case (un centinaio l’anno). A pagamento, s’intende: “È turismo ecologico, gli stranieri vivono insieme ai locali per conoscere la vita e le tradizioni dell’Amazzonia. Funziona bene: porta reddito e relazioni. I nativi restano in contatto coi turisti, alcuni hanno il pc e sono attivi sui social, specie ora con la pandemia”.

Il contagio spinge gli indigeni a rintanarsi, ma molti sognano la “dolce” vita urbana e abbandonano la foresta: “Qui comanda la natura ostile – dice Emanuela -, nelle case di paglia conviviamo coi pericoli della fauna e del clima, come serpenti o tempeste”. Si vive di caccia, pesca e raccolta. Il terreno non è fertile: a coltivare, lungo i bordi della foresta, sono solo le multinazionali grazie alla chimica (concimi, fertilizzanti) e alle enormi distese di terra. Il piranha invece è tra i cibi prelibati. Ma non c’è il frigo: al risveglio, il primo pensiero è la fame, perché si mangia ciò che offre la giornata: “Stamane non abbiamo nulla di cui nutrirci – racconta Emanuela -. Dovremmo andare a pesca, ma col brutto tempo non si può quindi aspettiamo il pomeriggio”. Comprensibile, la voglia di fuga dei ragazzi.

Ma ora vige la quarantena: nell’area del fiume Jauaperì ci sono 15 villaggi, tutti in autoisolamento. Ai primi di maggio, il fotografo Sebastiao Salgado ha lanciato un appello per salvare gli indigeni. “A Manaus ci sono sepolture collettive e cimiteri al collasso – dice Evangelista – il tasso di mortalità è salito del 108% rispetto all’anno scorso”. Nella foresta, dove il virus è già arrivato, si rischia l’ecatombe: “Ripeto sempre di chiuderci in villaggio e non andare in città ma le scorte scarseggiano, una volta al mese dobbiamo caricare da Manaus tonnellate di viveri e medicine”. Eppure, Emanuela è sempre lì.

Dopo la cerimonia al Quirinale, la biologa dei Castelli è volata in Brasile l’8 marzo, il giorno prima del lockdown: “All’atterraggio nessuno ha controllato i sintomi del morbo”. Per sicurezza, resta 14 giorni in quarantena a Manaus, prima di tornare nella foresta.

L’Amazzonia è casa sua: “Vivo come i nativi, ma non so pescare e impiego ore ad acciuffare un piranha, dipendo da loro per nutrirmi e difendermi dai pericoli”. C’è un patto: lei porta donazioni, tecnologie (pc e internet) e conoscenze per crescere; il villaggio le garantisce cibo e sicurezza. Così, nessuno può fare a meno dell’altro.

L’isolamento sociale in foresta crea problemi di sicurezza alimentare e di scorte: servono viveri e materiale per procacciarsi il cibo, servono medicine, prodotti di igiene e beni di prima necessità. “Abbiamo già distribuito 20 tonnellate di provviste per più di 300 famiglie ma non basteranno e la nostra mobilitazione continua!”. Per sostenere la campagna

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