25 anni dopo

Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, il testimone: “Li ho visti morire. Volevano che mentissi”

Caso Alpi - Nel libro curato da Grimaldi e Scalettari (editore Round Robin) parla uno dei testimoni somali: “Nel ’98 provarono a farmi accusare Hashi”

19 Marzo 2019

Quella che leggerete in queste righe è una testimonianza inedita. Si tratta di un signore somalo, Mohamed Hussein Alasow. Lo abbiamo raggiunto a Mogadiscio a pochi giorni dall’invio in tipografia di questo libro. È stato testimone oculare dell’agguato a Ilaria e Miran. Faceva l’autista, all’epoca, ed era fermo con la sua macchina (aveva una Land Rover anche lui) davanti all’hotel Amana. (…)

“Mi chiamo Mohamed Hussein Alasow. Sono nato a Mogadiscio, il 31 dicembre 1963. (…) All’epoca dell’omicidio di Ilaria e Miran lavoravo anche per l’hotel. Facevo per loro l’autista ed ero a disposizione per le esigenze dell’albergo. Ora lavoro in proprio. Ho ancora l’officina e quando ne ho l’occasione faccio l’autista di auto e di moto”.

Cominciamo con la sua testimonianza sul luogo dell’agguato.

In quei giorni avevo fatto l’autista per una troupe di Mediaset.

Aveva conosciuto Ilaria Alpi?

No, non l’avevo conosciuta.

Mi può raccontare del giorno in cui Ilaria e Miran sono stati uccisi?

Ilaria Alpi era rientrata da Bosaso. Il suo autista era Sid Ali Abdi, detto Murgani. Io mi trovavo proprio di fronte all’hotel Amana. Mi si vede anche in alcune immagini girate subito dopo l’omicidio. Mi si riconosce perché ho un bastoncino in bocca, di quelli che noi somali usiamo come spazzolino da denti. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono scesi dalla loro macchina davanti all’hotel Amana e sono entrati nell’albergo. Vi sono rimasti solo pochi minuti. Poi sono usciti, Ilaria è salita dietro e Miran davanti, accanto all’autista, e la macchina è ripartita. Avranno percorso una quarantina di metri. Appena la Toyota si è mossa, ho visto arrivare da destra, rispetto a dove ero fermo con la mia macchina, una Land Rover blu che accelerando rapidamente si è avvicinata a quella dei due giornalisti, come se volesse andargli addosso. Dai finestrini sono sbucate le canne dei kalashnikov, almeno tre fucili. Prima che loro facessero fuoco, ha sparato l’unico uomo di scorta di Ilaria e Miran, che si trovava sul cassone, nella parte scoperta della macchina. Quelli della Land Rover hanno subito sparato a loro volta, e nel mio ricordo, hanno continuato a sparare all’impazzata. (…)

Nessuno di loro è sceso dalla Land Rover?

Per quello che ho visto io no. Sparavano dai finestrini e poi dal portellone posteriore

Ha visto tutta la scena o si è nascosto per via della sparatoria?

Mi sono buttato a terra, per paura di essere colpito, ma ho sempre guardato verso il punto dove avveniva lo scontro a fuoco, ovviamente da terra, cercando di stare riparato. Ero a una quarantina di metri. (…)

Quanti erano gli assalitori?

Cinque. L’autista più quattro persone. (…)

L’agguato sembrava mirato alla Toyota?

Certamente sì. Ce l’avevano con i giornalisti. Si sono diretti verso la macchina con l’intenzione di sparare. (…)

E poi, che è successo?

La Land Rover è partita e la gente ha cominciato ad avvicinarsi alla Toyota dei giornalisti.

E lei?

Mi sono avvicinato anch’io.

(…)

Quando le hanno chiesto di venire a testimoniare in Italia?

Nel 1998.

1998? Ne è sicuro?

Sì. Ho ancora il passaporto con il visto.

Chi l’ha contattata per chiederle di testimoniare?

Due somali. Uno che si trova in Italia, che è soprannominato Gargallo. Vive in Italia da molti anni. L’altro, che invece vive in Somalia, a Mogadiscio Sud, si chiama Omar Dini. Gargallo faceva da tramite con gli italiani che volevano che venissi a testimoniare.

Doveva venire da solo?

No, insieme ad altre due persone, una donna e un uomo.

Sa chi erano?

Sì. Abdi Mahamud Omar, detto Jalla. La donna si chiama Ader, ed è venuta in Italia con suo figlio.

E poi?

Siamo arrivati in Italia. La donna col bambino da quel momento non l’ho più vista. Io e Jalla siamo stati accolti da poliziotti e carabinieri, che ci hanno portato al Viminale e poi in una caserma, dove abbiamo dormito. Ci avevano anche dato un somalo, che ci accompagnava e ci faceva da interprete, tale Ali Marduf.

E poi?

Dopo tre o quattro giorni mi hanno portato a fare l’interrogatorio.

Ricorda chi l’ha interrogato?

No, non ricordo il nome. Era una persona abbastanza giovane e piuttosto robusta. Ed era presente l’interprete Ali Marduf.

Che cosa le ha chiesto?

Mi ha detto che volevano che raccontassi quello che avevo visto sul luogo dell’omicidio. E hanno aggiunto che avevano già una persona somala arrestata in Italia. Non capivo bene dove volessero arrivare. Il discorso era un po’ strano… Dovevo, secondo loro, solo confermare quello che mi avrebbero detto.

In che senso?

Il poliziotto robusto continuava a dirmi che dovevo solo confermare quello che mi avrebbero chiesto. Io rispondevo che volevo raccontare quello che avevo visto, non confermare quello che mi dicevano loro. A un certo punto i toni si sono scaldati, e da certe frasi pareva che volessero anche accusarmi di qualcosa. Allora gli ho detto che non avrei fatto nessun verbale. Abbiamo litigato per un po’, tanto che il poliziotto ha preso il verbale che avevano cominciato a scrivere e me l’ha stracciato davanti agli occhi. (…)

Ma che cosa doveva confermargli?

Che Hashi Omar Hassan era fra quelli della Land Rover blu. Dovevo accusare Hashi. Ma Hashi non c’era. Non potevo farlo. Io Hashi, quel giorno, non l’ho visto. (…) Io ho detto che Hashi non lo conoscevo, non l’avevo visto. Non dico cose non vere. (…) Mi hanno promesso che se avessi confermato quello che mi avrebbero detto potevo rimanere in Italia.

Ha firmato qualche verbale?

No. Non ho firmato nulla. Anzi, come ho detto, hanno strappato i fogli.

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