L’intervista - Omar Pedrini

Omar Pedrini fa 50 anni: “Rock, modelle, cocaina e un cuore matto. Nessuno mi voleva operare, ora sono bionico”

Il cantautore, ex dei Timoria: “Se sono vivo in parte è grazie a mio figlio”

28 Maggio 2017

Gli stereotipi del rocker bello e dannato ci sono tutti, Omar Pedrini non ha lasciato nulla al solo manuale: la droga, problemi di alcolismo (“bevevo una bottiglia di vodka a sera. La vodka è la migliore, non dà l’alito di alcol”); capelli lunghi, tatuaggi, orecchini, donne e ancora donne, sesso senza memoria, tour interminabili (“anche 220 date in un anno”), qualche rissa (“da ragazzo giocavo pure a rugby”); del doman non importa la certezza. Successo. Dischi d’oro. I suoi Timoria trasmessi per radio. Tutto bene, benissimo, fino a quando si rivolta la presunta realtà: anno 2004, palco di Sanremo, il gruppo si è sciolto, Francesco Renga, per anni il vocalist, ha lasciato da tempo. Lui tenta la strada solista, è felice del pezzo, capelli più corti, canzone meno rock, ma piace, la vita gira. Eppure “poco dopo mi sento male: aneurisma aortico. E a giugno di quell’anno mi operano per otto ore a cuore aperto”. Stop alla carriera. Da allora ha subito altri due interventi, le comuni discese e risalite sono diventate salite più ripide e discese più brevi, non si arrende, e continua a pubblicare dischi intensi, belli, autoriali (l’ultimo: Come se non ci fosse un domani, appena uscito) e a suonare dal vivo, “senza strafare”, implorano i medici: “Impossibile, non ci riesco”.

Intanto auguri.

Per cosa?

Oggi compie 50 anni…

Cavoli, è vero. Non ci voglio pensare.

Come sta?

Oramai sono bionico, nell’ultima operazione mi hanno cambiato tutto (e si tocca il petto). Però sono più tranquillo, già evitare le droghe pesanti è un bel risultato.

Le utilizzava molto?

Quando racconto la mia vita ai medici, restano sconvolti: non capiscono come possa essere ancora vivo; per me era tutto pericoloso, dieci volte più di una persona normale. Non lo sapevo. Era la mia quotidianità… Possiamo subito ringraziare l’equipe di Bologna, quella che mi ha salvato pochi mesi fa? Sono stati gli unici ad accettare di operarmi.

Addirittura…

Sì, mi davano un alto rischio di mortalità, nessuno aveva il coraggio di rischiare la morte di un personaggio conosciuto. La soluzione era andare ad Houston, però costava 160mila dollari: non li avevo e non li ho.

Non ha nulla da parte?

Solo una piccola casa a Milano e devo ringraziare la solidità di mio padre, quando mi disse: questi risparmi non li puoi sprecare. Però non ho mai realizzato i soldi veri, siamo tra i fondatori del rock italiano, tanto blasone, a volte mi definiscono pioniere, e un brano come Senza vento, insieme ai pezzi dei Litfiba, ha aperto la strada del rock sulle radio, ma in sostanza non mi sono arricchito.

Però avete venduto decine e decine di migliaia di dischi.

Quando abbiamo iniziato a guadagnare abbiamo sempre diviso per cinque, pratica non comune agli altri gruppi, ma era la regola di allora e la rivendico: eravamo una band democratica, e mi sono sempre sentito un uomo del popolo. Ho preso poi qualcosa di più con i diritti d’autore, visto che ho scritto i testi.

“Uomo del popolo”.

Sono figlio di operai di Brescia, nipote di operai impiegati in un cotonificio. Mio padre poi, piano piano, ha rilevato l’impresa nella quale lavorava, ma parliamo di una piccola struttura famigliare con quattro lavoranti, mica di più.

Di sinistra.

Mio padre no, democristiano, mentre dalla parte di mia mamma c’era una fiera tradizione socialista, mia nonna fu l’unica a rifiutare di donare al Duce la sua veretta: “Già vi siete presi mio marito per la guerra, questa no”.

Lei definisce sempre sua madre una hippy…

E lo era. Sono nato nell’estate del 1967, l’estate dell’amore, e mia madre era una fiera rappresentante; insieme a mia sorella ci portava a tutti i concerti dell’epoca, sempre sulle sue gambe, da Guccini a De Andrè, e finito lo show, non so come fosse possibile, entravamo nel lato riservato agli artisti, e li salutavamo.

Tutti cantautori…

Ah, anche Roberto Vecchioni, che poi è diventato il mio professore di liceo a Brescia: era supplente, ogni giorno arrivava da Milano. Severo. Anzi, severissimo. Pochi anni fa l’ho intervistato per Rai5 durante il periodo nel quale ho lasciato la musica.

Otto anni in naftalina.

Dopo la prima operazione ho stoppato, ho puntato su altro, differenti ritmi, differenti percezioni. Così ho scritto programmi per la televisione, qualcosa per la radio, insegno ancora alla Cattolica, e ho lavorato nel mondo dei vini, con Veronelli maestro del buon bere e anarchia. Ah, ho venduto Franciacorta, mi sono scoperto commerciante.

Tutto.

Sì. Per fortuna le passioni mi hanno dato da vivere…

Torniamo agli inizi della carriera: le girava la testa?

La fortuna è stata mio figlio Pablo, avuto a 24 anni dalla fidanzata storica del liceo; in mezzo al delirio rockettaro, la sua presenza mi ha salvato da ogni dipendenza. Sapevo di dover tornare da lui, ero cosciente di dovergli molto, quindi mi drogavo con un briciolo di lucidità.

Aveva il cerchio magico?

Non uno fisso, variava dai luoghi dove andavamo, ma i veri rapporti erano solo e sempre con la band e con gli amici storici, tipo il capo degli ultras del Brescia, una sorta di guardia del corpo, sempre con me da quando siamo piccoli. Infatti dopo ho avuto un po’ di smarrimento…

Dopo, quando?

Alla fine dei Timoria, ero abituato a condividere, avevamo i nostri segreti, le nostre dinamiche; vivevamo i camerini dei concerti non la Milano da bere, nessun locale perché non mi divertivano.

Meglio gli amici.

Senza discutere. Poi con gli anni un po’ sono morti, altri finiti in galera. Forse non è chiaro: provengo da un quartiere tosto di Brescia, dov’è normale ci siano persone finite in carcere; dove la curva allo stadio è un’altra famiglia.

Sesso, droga e rock…

Abbiamo rispettato alla perfezione lo “stile”: modelle e pornostar in continuazione, senza fatica; nei camerini arrivava fissa la cocaina, non era neanche necessario domandarla.

Champagne.

No, no. A Sanremo Simona Ventura mi consegna il premio della critica, e sul palco mi dice: “Saranno tutti a casa a brindare con lo champagne”. Subito rispondo: “No, Franciacorta, per me solo bollicine italiane”. Cacchio, il giorno dopo mi sono arrivate decine di casse di vino, biglietti di ringraziamento: senza volerlo gli avevo regalato uno spot da 600mila euro. Purtroppo non ho mai pensato ai soldi.

Mai?

No, fino a quando non mi sono trovato con il culo a terra, senza la possibilità di arrivare alla fine del mese, di operarmi dove volevo: lì mi sono reso conto di cosa ho combinato, di quanto ho regalato. Non ho mai valutato la reale importanza del denaro, neanche quando da bambini ci pioveva in casa.

Sanremo è stata la svolta.

Ci sono andato tre volte, e anche quest’anno ho presentato una canzone, ma sono stato rifiutato: era dedicata a Freak Antoni (è una traccia del nuovo album), volevo fargli calcare quel palco che lo ha sempre rifiutato.

Su Freak Antoni e Sanremo c’è stata una lunga polemica…

Lui era già malato, voleva solo lasciare un ricordo di sè, un momento popolare, fiero di far parte dell’unica band italiana con “quarant’anni di insuccesso”, parole sue. Con varie scuse non lo hanno ammesso, anche a causa della scarsa solidarietà di alcuni colleghi musicisti, gli stessi che poi ho visto al funerale.

Sanremo con i suoi occhi…

Ci vuole il fisico, la testa, un team in grado di scegliere i tempi per gestirsi in quel perenne happening. È la follia. Però il mio primo Ariston lo ricordo con sorriso e orgoglio: molti nostri fan ci minacciarono, lettere con “vi tireremo sassi ai concerti”…

Si sentivano traditi…

Arrivarono frasi estreme, assurde e rispondevo: “Aspettate di sentire la canzone”.

Subito eliminati.

Sì, e torniamo a casa, ma quando varco la porta, trovo mia madre: “Cosa fai qui? Ti cercano da ore, devi tornare indietro, avete vinto il premio della critica”. Un premio nato quell’anno apposta per noi, ancora esiste, e da allora, di lì, sono passati molti gruppi rock, dai Bluvertigo, ai Subsonica fino ai Negramaro.

A proposito di colleghi, lei ha pubblicato una foto con Chris Cornell, suicida pochi giorni fa.

Ero e resto un suo fan. Quando l’ho conosciuto era chiaro che aveva problemi. Siamo andati in giro per Milano ma in continuazione si guardava attorno, tutti gli angoli delle vie…

Non era semplice curiosità della città.

Certa gente la sento dall’odore, la riconosco: cercava qualcosa, le voci di allora parlavano di droghe pesanti.

Nel suo ultimo disco duetta con un’altra superstar internazionale: Noel Gallagher, fondatore degli Oasis…

Noel è una persona molto riservata, potrebbe sembrare chiuso, in compagnia si estranea spesso. Ma è un ragazzo veramente buono, generoso, ospitale, andiamo allo stadio insieme. Anche lui ha passato degli anni Novanta dissennati, di frequente ne parliamo; anche lui è un sopravvissuto. Ora nei camerini ha sempre una postazione per la moglie e i figli, oltre alla bandiera del Manchester city. Una sera è arrivato David Beckham, ex capitano del Manchester United, e Noel senza dirgli niente, si è fatto scattare una foto con sullo sfondo lo stendardo del City.

Oltre a suo figlio Pablo, a chi dice grazie?

A mio padre. Quando non riuscivo ad alzarmi dal letto e vivevo in una casa sotto il suo appartamento, sistematicamente arrivava lui per cercare di svegliarmi, mi buttava sotto la doccia e spesso mi portava a Milano perché non ero in grado. Così riposavo quella preziosa ora di viaggio…

Sempre problemi con la droga?

No, avevo smesso, la questione era l’alcol. Inoltre nella mia vita non c’era più la musica, nessuno puntava su un cavallo zoppo, ero solo, escluso mio padre. Il mio vecchio non mi ha mollato e una mattina, guardandolo negli occhi, ho giurato che sarei rinato.

Una colonna.

Ancora oggi mi viene da star male pensando ai suoi occhi quando era in pena per me. Capivo che il lusso di poter fare del male a me stesso passava per la sofferenza di chi mi amava e ho svoltato, ho ricominciato anche se mi aspettavano ancora due operazioni. Non lo sapevo.

Quindi sensi di colpa…

Non solo per questo: per molti anni ho sofferto per non aver proseguito il suo lavoro, per anni l’ho visto solo e preoccupato, solo e angosciato perché senza di me avrebbe chiuso la sua piccola creazione lavorativa. Poi alla fine è arrivata la crisi, avrebbe dovuto licenziare uno dei suoi operai, ha preferito mettere i lucchetti e far ottenere a tutti la cassa integrazione.

Ha mai imbarazzato suo figlio?

Una volta tantissimo, e non me lo aspettavo, l’ho scoperto durante un’intervista doppia alle Iene…

Cosa è successo?

Una sera ero in un locale con quattro modelle, bellissime, dopo un po’ le ho spinte verso di lui, già immaginavo il suo orgoglio, magari una foto e il suo pavoneggiarsi il giorno dopo con gli amici…

E invece?

Mi ha confessato che è stato un momento terribile.

Se questo è l’errore, ha un figlio clemente.

Molto. Ribadisco: a lui devo veramente tanto.

E lei com’era da ragazzo?

Suonavo sempre. A 14 anni mio padre mi chiese: “Vuoi il motorino o la chitarra?”. La chitarra, ovvio. A scuola prendevano in giro sia me che gli altri del gruppo, ci trattavano un po’ da coglioni; anni dopo sono tutti venuti a chiedermi i biglietti gratis per i concerti. Me li ricordo, eccome.

In uno dei suoi video lei passa da capellone a rasato.

Verissimo, era Senza far rumore. Tutto a causa di una lite con il regista e del pressing della casa discografica: dopo il primo giorno di riprese, il secondo mi sono piazzato davanti allo specchio e via di lametta. Erano anni così…

Pentito.

No, era il mood di quel periodo, era un percorso. Poi sono nato incendiario e voglio morire piromane.

Piromane, con calma…

Quanto posso. Vivo del mio lavoro, a volte non sono arrivato a fine mese, ho una figlia di quattro anni stupenda e una moglie che amo, devo mantenerle, com’è giusto, come desidero. Mi sono sposato…

Per la prima volta?

Sì, e poco prima dell’ultima operazione, volevo fare testamento, così ho chiamato il sindaco di Brescia e gli ho detto: “Mi devi un favore, ho contribuito alla tua elezione, quindi sposami entro una settimana”.

Quante volte le domandano della reunion con Renga?

È la cosa che odio di più. Oramai abbiamo percorsi totalmente diversi, e comunque io ho ancora i fan dei Timoria, lui no, e lo dico affettuosamente. Lui oggi fa un altro tipo di musica, quella che lo ha reso una star e con le giuste soddisfazioni economiche.

Però è pace tra di voi.

Suggellata davanti a un caffé e dopo quindici anni e a una condizione: “Superiamo la questione se finalmente dici la verità sullo scioglimento”. Non ne potevo più di ingoiare accuse, molti pensavano fosse stata colpa mia…

Quando, invece…

Lui aveva deciso, io non volevo diventare cantante, a me andava benissimo il ruolo del chitarrista-pigro, quello che non deve affaticarsi troppo sul palco.

Al contrario…

Ora mi sbatto, e intendo farlo fino all’ultimo, magari morirò lì sopra, ma è la mia vita, non ci rinuncio, anche perché non me lo posso permettere.

Nonostante tutto, quando Omar Pedrini parla, non perde mai il sorriso. Senza filtri. Woody Allen in versione Humphrey Bogart diceva: “Tutta roba che passa con un bel whiskey & soda”. In questo caso è meglio evitare il whiskey e puntare tutto sulla soda.

Twitter: @A_Ferrucci

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