Giorgio, il Re Sole: dai carri armati agli scudi per B. – Il ritratto di Napolitano firmato da Marco Travaglio nel 2015

29 Gennaio 2015

All’indomani delle elezioni del 2006 il centrosinistra, che ha vinto per un pelo dopo aver buttato alle ortiche il larghissimo vantaggio di partenza, si pappa subito le presidenze di Camera e Senato. Poi, come il coccodrillo che piange solo dopo i pasti, corre a blandire Berlusconi per concordare con lui un presidente della Repubblica “condiviso” e “di garanzia”. I nomi più gettonati sono Giuliano Amato, Massimo D’Alema, Anna Finocchiaro, Franco Marini ed Emma Bonino. Sembra la cronaca degli ultimi due mesi. Invece, a riprova del fatto che nella politica italiana non si butta via niente, è quella di sette anni fa.

La notte del 10 aprile 2006 è fra le più mozzafiato della storia della Repubblica, tant’è che solo all’alba si è saputo che l’Unione di Prodi ha battuto il centrodestra del solito Berlusconi: alla Camera per appena 24 mila voti in più, al Senato solo grazie al Porcellum che ripartisce i seggi su base regionale (lì è stata la destra a raccogliere 500 mila consensi in più) e al voto degli italiani all’estero, che regalano al centrosinistra una maggioranza di appena 3 seggi. Ma per l’incarico a Prodi, di cui Berlusconi rifiuta di riconoscere la vittoria strillando ai “brogli della sinistra” e invocando il riconteggio delle schede (che non gli frutterà alcun vantaggio), bisogna attendere il nuovo presidente della Repubblica. Ciampi è ormai scaduto e le Camere sono convocate per l’8 maggio per eleggere il suo successore. Qualcuno, sulle prime, ipotizza – per pura cortesia, ma senza grande convinzione – una riconferma del capo dello Stato, che va per gli 86 anni e sette anni dopo ne avrebbe 93. Per fortuna è lui stesso, il 3 maggio, a levare tutti dall’imbarazzo, respingendo le deboli insistenze che gli arrivano da Ds, An, Udc e Verdi: “Non sono disponibile a una rielezione, sia per la mia età, sia perché il rinnovo di un mandato lungo, quale è quello settennale, mal si confà alle caratteristiche proprie della forma repubblicana del nostro Stato”. Inizia così il minuetto delle candidature e delle “rose”. Lo schema di sette anni prima, quando destra e sinistra si accordarono in un batter d’occhio sull’ex governatore di Bankitalia ed ex premier, è improponibile: il Caimano non è più quello ammansito dalla Bicamerale, ma sfodera zanne e artigli in una battaglia paraeversiva contro la vittoria mutilata dai comunisti imbroglioni e truccatori di schede che gli avrebbero scippato la rimonta proprio sul filo di lana. Impossibile sedersi al tavolo con lui per concordare chicchessia e alcunché. Però i nomi che si fanno sono gli stessi che sceglierebbe lui se fosse interpellato: Amato, D’Alema, Bonino, Finocchiaro e Marini (appena divenuto presidente del Senato, mentre sullo scranno più alto della Camera s’è accomodato Fausto Bertinotti, fregando il solito D’Alema che non ne azzecca una). Ma il Cavaliere, per non bruciare le sue quinte colonne a sinistra, finge di non voler altri che i suoi Gianni Letta, Marcello Pera, Pier Ferdinando Casini, Lamberto Dini e Mario Monti (sì, proprio lui). Di Pietro, per rompere l’inciucio spontaneo del centrosinistra, spariglia i giochi con la sua neosenatrice Franca Rame. Cossiga auspica, come soluzione istituzionale, Marini, che però si dice subito indisponibile. Fuori uno. O meglio, tutti gli altri tranne uno: D’Alema, che da settimane ha mandato segretamente avanti i suoi sherpa in campo avverso (si fa per dire) per preparare il terreno alla propria candidatura.

Ipotesi Caimano senatore a vita

La prima mossa l’ha fatta, all’indomani del voto, la Velina Rossa del dalemiano Pasquale Laurito, lanciando l’idea di nominare il Cavaliere senatore a vita. I dalemiani Caldarola, Latorre e Rondolino hanno subito applaudito. La cosa potrebbe sembrare la boutade di un pugno di personaggi che, pur di strappare un titolo sui giornali, sarebbero disposti a qualunque abiezione. Ma boutade non è, visto che fra le garanzie offerte dagli emissari dalemiani a quelli berlusconiani per lubrificare la scalata al Colle della Volpe del Tavoliere (come lo chiama sarcastica Rossana Rossanda), c’è anche il laticlavio al Caimano: il che lo metterebbe per sempre al riparo dal rischio di finire in galera. Ma quello è solo l’inizio. Ufficialmente l’Unione ha affidato al braccio destro di Prodi, l’ex giornalista Ricardo Franco Levi, l’in – carico di condurre le trattative con la Casa delle Libertà. Ma il clan D’Alema se ne infischia e continua a giocare in proprio, da quell’autentico partito nel partito che è, contattando vorticosamente i capi del Partito Azienda, e talora direttamente dell’Azienda. Il primo a muoversi è il più spregiudicato dei giannizzeri dalemiani, Nicola Latorre, che incontra per due ore Giuliano Ferrara nella sede del Foglio . Con ottimi risultati, visto che Cicciopotamo (come lo chiama Giampaolo Pansa) ha subito iniziato a sponsorizzare il Conte Max. La solita bizza dell’Elefantino per farsi notare e vincere la noia? Tutt’altro: il segnale convenuto che fa uscire dalle tane ben altri sponsor: Fedele Confalonieri, Carlo Rossella, Marcello Dell’Utri, Paolo Cirino Pomicino, Francesco Cossiga, Vittorio Feltri, Piero Ostellino, Renato Farina, Oreste Scalzone e Lanfranco Pace. Un fronte composito che ingloba tutto e il contrario di tutto: il partito Mediaset al gran completo, più alcuni avanzi della vecchia Dc, del vecchio Psi e della vecchia eversione rossa. Nomi che imbarazzerebbero anche Landru, ma non D’Alema, che incassa gongolante. Lui stesso – come rivela Mario Calabresi, mai smentito, su Repubblica – sente e incontra più volte Letta e Dell’Utri, mentre il segretario Ds Piero Fassino perora la sua causa in un incontro riservato col presidente di Mediaset Confalonieri (e tanti saluti al conflitto d’interessi). Il Corriere della Sera svela i nomi e le funzioni dei protagonisti dell’Operazione Max: Latorre compie “massicce incursioni in Forza Italia”; “Bersani, che vanta un buon rapporto con la Lega, lavora sul fronte del Nord” (infatti Bobo Maroni esprime grande interesse per la candidatura D’Alema, prima di essere stoppato da Bossi); “Peppino Caldarola prende da parte Mastella e Fini”; “Anna Finocchiaro rassicura le toghe e Marco Minniti le forze armate”; “Gianni Cuperlo tiene i contatti con Mediaset”; la cattocomunista Livia Turco spiega che “in Vaticano ritengono D’Alema una delle personalità più intelligenti della politica italiana”; il governatore calabro Agazio Loiero è “l’emissario presso i tentennanti della Margherita”. A quel punto Berlusconi fa trapelare che “D’Alema è il più bravo di tutti i comunisti” e la ventilata opzione Napolitano “non esiste: tra un comunista e l’altro, mi fiderei più di D’Alema”. Paolo Bonaiuti, il fedele portavoce, conferma: “Silvio s’è di nuovo infatuato di Massimo”, come ai tempi della Bicamerale, peraltro mai davvero chiusa.

Fassino al “Foglio” per l’amico

Il secondo del partito-azienda a uscire allo scoperto, dopo Ferrara, è Marcello Dell’Utri. Che si fa intervistare dal Corriere il 5 maggio: anche lui sponsorizza D’Alema e dice che pure il Cavaliere potrebbe votarlo e farlo votare, come già nel ’96 per la presidenza della Bicamerale; ma, in cambio dello “sdoganamento” da parte di Forza Italia, il pregiudicato Dell’Utri, condannato in primo grado per mafia e per estorsione e in Cassazione per false fatture e frode fiscale, chiede “un segnale istituzionale” da D’Alema o chi per lui. Su quali materie è superfluo specificarlo: giustizia e televisioni. Dell’Utri chiama e, a stretto giro di posta, Fassino risponde. Lo stesso 5 maggio riceve in visita al Botteghino Giuliano Ferrara, al quale rilascia un’intervista per il Foglio che è tutta un programma. Nel vero senso della parola. Per la prima volta in 60 anni di storia repubblicana, un segretario di partito presenta una piattaforma programmatica per un aspirante presidente della Repubblica. Nella fattispecie, D’Alema. È il “segnale istituzionale” auspica – to dal pregiudicato Dell’Utri. Sei impegni precisi per indurre Berlusconi, e i suoi cari al seguito, a votare D’Alema. Preambolo: “La guerra è finita, la candidatura di D’Alema al Quirinale dev’essere il primo atto di una pace da costruire e non l’ultimo atto di una guerra che continua. Chiedo a Berlusconi e a tutta la Cdl di valutare alla luce del sole la possibilità di eleggere D’Ale – ma”. Ferrara domanda: Fassino chiede i voti alla Cdl? Lo sventurato risponde: “Certo. O comunque un’intesa graduabile in diverse forme esplicite”. Seguono le solite menate su “ritrovare la serenità”, pacificarsi, “smet – terla di pensare che se vince Berlusconi ci sia il fascismo alle porte”. Poi le sei proposte indecenti.

1) “Il prossimo governo italiano si farà carico delle scelte di chi lo ha preceduto, in nome dell’interesse nazionale. Di questo percorso, D’Alema al Quirinale vuole farsi garante” (e a che titolo il candidato presidente di una Repubblica parlamentare potrebbe commissariare di fatto il premier Prodi, dettandone le scelte politiche, fra l’altro, in palese contrasto col programma dell’Unione che prometteva discontinuità con le scelte del precedente governo, proprio in nome dell’interesse nazionale?).

2) “L’assicurazione che, se il governo Prodi dovesse entrare in crisi, si tornerà a votare perché… la legittimità di una maggioranza e di un governo viene dal voto dei cittadini” (ma non si era sempre detto che i parlamentari sono eletti senza vincolo di mandato e che il capo dello Stato può sciogliere le Camere solo come extrema ratio, quando in Parlamento non emerge alcuna maggioranza in grado di sostenere un governo?).

3) “Da capo del Csm, un presidente (D’Alema, nda) che eserciti la funzione di garanzia operando… per evitare ogni possibile cortocircuito fra politica e giustizia” (e dove sarebbero, delirii berlusconiani a parte, i “cortocircuiti fra politica e giustizia”? E come si può avallare la tesi bislacca secondo cui le doverose indagini della magistratura su fatti di malaffare commessi da politici siano “cortocircuiti fra politica e giustizia”?).

4) “Sulle grandi scelte di politica estera un presidente che favorisca la massima intesa possibile” (ma in una Repubblica parlamentare la politica estera spetta al governo e al Parlamento, non al capo dello Stato; e non è stata proprio la politica estera, con la partecipazione dell’Italia all’occu – pazione dell’Iraq, uno dei terreni di scontro fra destra e sinistra?).

5) All’indomani del referendum che – come noi auspichiamo – boccerà la revisione costituzionale della destra, si riprenda il confronto sulle istituzioni che consenta di portare a termine una transizione istituzionale da troppi anni incompiuta” (ma che senso ha difendere la Costituzione dalla controriforma della destra per poi promettere subito un’altra riforma insieme alla destra? Dove sta scritto che si debba riformare la Costituzione? E a che titolo un capo dello Stato, “ga – rante della Costituzione” vigente, potrebbe garantirne la sostituzione con un’altra?).

6) Il D’Alema proposto da Fassino al Quirinale “è quello che ha presieduto la Bicamerale… e ha sempre rifiutato di demonizzare il centrodestra” (un altro refrain berlusconiano – cioè l’accusa di “demonizzazione” a chiunque l’abbia descritto per quello che è – che entra nel lessico del leader Ds). La sconcertante intervista di Fassino al Foglio , che suscita l’allibita reazione dell’ex presidente della Corte costituzionale Valerio Onida, stupefatto da cotanto analfabetismo istituzionale, esce il mattino di sabato 6 maggio. Due giorni prima che il Parlamento inizi a votare. La sera, in perfetta coordinazione, Confalonieri è ospite di Fabio Fazio su Rai3 e dichiara: “Da uomo della strada dico sì a D’Alema, è uno con la testa, molto simile al Cavaliere, sono uomini che non usano i bizantinismi. Da uomo d’impresa dico che D’Alema è un uomo di parola: dieci anni fa è venuto in azienda e ha detto che Mediaset non si toccava perché era un patrimonio del Paese. E infatti con il suo governo non abbiamo avuto nessun problema”. Ma alla Volpe del Tavoliere, quando i giochi sembrano ormai fatti, è fatale la domenica 7. Si mettono di traverso il leader della Margherita, Francesco Rutelli (geloso dei Ds), e il duo Casini-Fini (gelosi di Berlusconi). L’Operazione Max abortisce, perché spaccherebbe entrambi i poli proprio in avvio di legislatura. D’Alema si ritira in buon ordine.

’O guaglione fatt’a vecchio

Il Pdl offre la solita rosa di nomi, capitanata da Amato e non solo in ordine alfabetico. Ma a quel punto i Ds, primo partito dell’Unione, ne fanno una questione di principio: caduto Max, non resta che Giorgio Napolitano. Nato a Napoli nel 1925, figlio di un avvocato liberale, laureato in Giurisprudenza, giovane fascista nei Guf, poi antifascista dal ’44 e comunista dal ’45, deputato dal 1953, sposato con Clio Bittoni che gli ha dato due figli, soprannominato dall’amico scrittore Luigi Compagnone “’o guaglione fatt’a vecchio” (il ragazzo vecchio, anche per la calvizie che lo colpì fin dai vent’anni), famigerato per l’elogio ufficiale a nome del Pci all’Armata Rossa che schiacciava la rivolta di Budapest nel 1956 (“L’intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ma alla pace nel mondo”) e per le dure critiche nel 1981 alla campagna di Enrico Berlinguer sulla “questione morale” contro le ruberie della banda Craxi, leader storico della corrente “migliorista” filocraxiana (a Milano ribattezzata “pigliorista” per la vicinanza al Psi e alla grande impresa, e per il coinvolgimento di vari suoi esponenti in Tangentopoli), già presidente della Camera nel 1992-’94, poi ministro dell’Interno nel primo governo Prodi, nominato senatore a vita da Ciampi, soprannominato “il figlio del re” per la somiglianza con Umberto II di Savoia, Napolitano è tutt’altro che sgradito a Berlusconi.

Nel 1992-‘93, ai tempi di Mani Pulite, ha criticato più volte il pool di Milano da presidente della Camera. Nel ‘93 la Procura di Napoli ha sequestrato le agende del dirigente Fininvest Maurizio Japicca, ha trovato il nome di Napolitano in un elenco di politici definiti “vicini” Biscione (il futuro Presidente fu addirittura indagato, con un atto segretato in cassaforte dai pm partenopei e poi archiviato, per sospetti finanziamenti illeciti alla sua corrente sotto il Vesuvio). Del resto, nel ‘94, è Napolitano l’unico “comunista” a cui il Cavaliere ha stretto la mano in piena aula di Montecitorio, ringraziandolo per l’auspicio di “un confronto non distruttivo fra maggioranza e opposizione” al suo primo governo e offrendogli poco dopo la nomina a commissario europeo (poi, approfittando dei suoi tentennamenti, andata alla Bonino). E nel ‘95, caduto il suo primo governo, non ha alzato un sopracciglio quando il Parlamento l’ha eletto presidente della Commissione per il riordino del sistema radiotelevisivo (che naturalmente non riordinerà un bel nulla). Ma le esigenze di propaganda inducono Berlusconi a tuonare contro il “comunista” candidato al Colle senza il suo permesso e contro l’“occupazione rossa” di tutte le cariche istituzionali. Così da allungare la coda di paglia del futuro primo Presidente comunista della storia.

Quando lo riesumano per il Quirinale alla veneranda età di 81 anni, la più avanzata di un presidente della Repubblica dopo Pertini, “’o guaglione fatt’a vecchio” ha ormai raggiunto politicamente la pace dei sensi. Esaurita l’esperienza di governo nel ‘98 con la pessima gestione del Viminale (“non sono qui per aprire armadi e scoprire segreti”, disse appena insediato, qualche giorno prima che saltasse fuori un archivio nascosto dei servizi segreti sulla via Appia; poi invocò una controriforma dei pentiti di mafia, a suo dire “troppo numerosi”; e varò la legge sull’im – migrazione Napolitano-Turco che introduceva i Cpt-lager) e tenuto ai margini del partito, che nel ’99 l’ha spedito al Parlamento europeo, passa il suo tempo a scrivere pensose e noiose articolesse sull’Europa, che l’Unità gli pubblica più per dovere che per piacere, e a rilasciare sullo stesso tema verbose e polverose interviste che pretende pignolescamente di rileggere, correggendovi anche le virgole e protestando vibratamente con i direttori nel caso di qualche parola o riga tagliata. Viene anche sfiorato da uno scandalo, quando nel 2004 un giornalista tedesco (vedi filmato su youtube) lo insegue invano per chiedere spiegazioni di una sua usanza poco edificante: per un volo low cost Roma-Bruxelles costato 90 euro, Napolitano ha ottenuto un rimborso di 800 euro (come per un volo di linea), più altri 80 per il taxi e 268 di indennità di missione. Ma nel dicembre 2005 s’è preso la sua gelida rivincita, con un durissimo intervento in Direzione contro i vertici Ds, da Fassino a D’Alema, coinvolti nello scandalo Unipol-Bnl: “Alcuni dirigenti hanno mostrato eccessiva fiducia in Giovanni Consorte”. Un modo come un altro per ricordare che lui è ancora vivo, e all’occorrenza in partita.

Siccome il centrodestra non vuol saperne di votarlo, l’Unione attende il quarto scrutinio. E, nei primi tre, vota scheda bianca. Nel primo la Cdl vota Letta e l’Idv la Rame. Nel secondo e nel terzo anche la destra si astiene, mentre la Lega vota Bossi. Qualche buontempone segna sulla scheda i nomi di Adriano Sofri, Maria Gabriella di Savoia, Giorgio Almirante, Bruno Vespa, Barbara Palombelli, Linda Giuva (moglie di D’Alema) e Ambra Angiolini. Al quarto scrutinio, il 10 maggio, Napolitano viene eletto undicesimo presidente della Repubblica con 543 voti su 1009 (Unione, più i dissidenti Udc Marco Follini e Bruno Tabacci): la maggioranza più risicata della storia del Quirinale dopo quelle di Leone e Segni.

Le manovre anti-inchieste

Berlusconi lo saluta ufficialmente come “un Presidente di parte”, ma con poca convinzione. I fatti diranno che mai il Cavaliere aveva trovato sul Colle un uomo più disponibile di Napolitano. Non una legge-vergogna rinviata alle Camere, anzi tutte firmate alla velocità della luce (scudo fiscale, lodo Alfano, legittimo impedimento, le ultime due poi giudicate incostituzionali dalla Consulta). A parte il no preventivo al decreto Englaro e a una legge sul lavoro, cioè a due provvedimenti che non riguardano gli affari del premier. Fiumi di “moniti” alla magistratura perché eviti lo “scontro” con la politica a ogni indagine sul malaffare di questo o quel potente. O perché giornalisti e/o pm concedano “tregue” per non disturbare Berlusconi durante il G8 de L’Aquila nel 2009 e le consultazioni del 2013. E poi un’infinità di entrate a gamba tesa, camuffate da moral suasion, nelle indagini giudiziarie più scomode per il potere: da quelle del pm Woodcock a Potenza a quelle di De Magistris e della Procura di Salerno sul malaffare calabrese, fino alle scandalose telefonate Quirinale-Mancino sulla trattativa Stato-mafia e all’incredibile conflitto di attribuzioni alla Consulta contro la Procura di Palermo, financo gli interventi sul procuratore bolzanino della Corte dei Conti che disturba il manovratore altoatesino Durnwalder, per concludere in bellezza con la grazia ad Alessandro Sallusti (condannato per aver diffamato un giudice) e a un colonnello Usa condannato (e latitante) per il sequestro Abu Omar. Circondato e circonfuso dagli incensi e dai salamelecchi di politici tremebondi, giornalisti compiacenti, intellettuali genuflessi e giuristi corazzieri, ai limiti del culto della personalità, il Presidente si crede ormai infallibile, ineffabile, incriticabile. La stampa estera lo battezza “Re Giorgio”. Ma sarebbe più appropriato “Re Sole”, visto che si attribuisce via via prerogative sconosciute alla Costituzione repubblicana, e anche allo Statuto Albertino. Tant’è che si permette di interferire nelle campagne elettorali (attacca più volte Di Pietro, l’unico che osa criticarlo, e nel 2010 invita esplicitamente a non votare per i “populisti” a 5 Stelle di Grillo, che lo chiama “Ponzio Pelato” e “Morfeo”) e financo nelle libere determinazioni dei partiti (il refra in delle “larghe intese” per le “riforme condivise”). Fino a salvare il terzo governo Berlusconi dalla sfiducia nel novembre 2010 col rinvio della votazione di un mese (indispensabile al Caimano per comprare una trentina di deputati). E poi a inventarsi il governo Monti, nel dicembre 2011 dopo le dimissioni del Cavaliere, mettendolo al riparo da un voto anticipato che lo raderebbe al suolo e condannando alla rovina il Pd di Bersani. E poi, dopo le elezioni-tsunami del 2013, a stroncare sul nascere l’idea di un premier extra-partiti lanciata dai 5Stelle usciti vincitori dalle urne. Il tutto in nome di una malintesa “neutralità” e di una impossibile “pacificazione” fra aggressori e aggrediti, col risultato di fare sempre il gioco dei primi. Ogni tanto, piccato dalle sparutissime critiche, Napolitano cita Luigi Einaudi, il Presidente a cui meno somiglia, dimenticando la più nobile e attuale delle sue “prediche inutili”: “Non le lotte e le discussioni devono impaurire, ma la concordia ignava e le unanimità dei consensi”. Una frase che andrebbe scolpita a caratteri cubitali sulla facciata del Quirinale. A futura e passata memoria.

(11. fine)

Tutte le domande alle quali Re Giorgio non ha mai risposto

Signor Presidente, quando uno dei suoi migliori predecessori, Sandro Pertini, fu eletto capo dello Stato nel 1978, Indro Montanelli gli inviò il seguente telegramma: “Che Dio le conceda il coraggio, Presidente, di fare le cose che si possono e si debbono fare; l’umiltà di rinunziare a quelle che si possono ma non si debbono, e a quelle che si debbono ma non si possono fare; e la saggezza di distinguere sempre le une dalle altre”. È un vero peccato che Montanelli, essendo scomparso nel 2001, non abbia potuto inviarlo anche a lei quando fu eletto nel 2006 e rieletto nel 2013. Le sarebbe senz’altro servito a evitare un sacco di errori, abusi di potere e deragliamenti dai confini fissati dalla Costituzione, che invece hanno costellato l’intero suo settennato e anche il post-scriptum degli ultimi 20 mesi. Manca lo spazio per riassumerli tutti: li troverà, nel caso in cui le servisse un ripasso, nel libro Viva il Re! uscito un anno fa. Qui ci limitiamo a quelli del suo secondo mandato, che da soli bastano e avanzano a fare di lei il peggior presidente della storia della Repubblica.
A termine e a condizione. Lei, il 20 aprile 2013, quando smentì ciò che aveva ripetutamente giurato agli italiani e accettò la rielezione al Colle su richiesta delle cancellerie europee, di Mario Draghi, del governatore di Bankitalia Ignazio Visco, ma soprattutto dei vecchi partiti (terrorizzati dalla candidatura di Stefano Rodotà, che avrebbe impedito la riedizione delle larghe intese Pd-Berlusconi, già peraltro bocciate dagli elettori due mesi prima), annunciò subito che il suo secondo mandato sarebbe stato “di scopo”, limitato a misteriosi “termini entro i quali ho ritenuto di poter accogliere in assoluta limpidezza l’invito ad assumere ancora l’incarico di presidente”. Sarebbe così gentile da indicarci quale articolo della Costituzione prevede l’elezione condizionata e temporanea del capo dello Stato, visto che l’articolo 85 stabilisce in assoluta limpidezza che “il presidente della Repubblica è eletto per sette anni”?
L’abbraccio allo Statista. In quei giorni il Corriere scrisse che – per indurla ad accettare il bis – “decisivo sarebbe stato il colloquio tra Napolitano e Berlusconi. Il presidente avrebbe dato atto all’ex premier di avere avuto, in questa difficile fase, un ‘comportamento da statista’. Prima del congedo, fra i due vi sarebbe stato un lungo, caloroso abbraccio, talmente toccante da suscitare emozione nel portavoce di Napolitano, Pasquale Cascella”. Dal Quirinale, nessuna smentita. Davvero, Presidente, bastava un sì alla sua rielezione per trasformare un pluriprescritto per reati gravissimi, plurimputato per concussione e prostituzione minorile e per corruzione di senatori, nonchè condannato in appello per frode fiscale, in un insigne “statista”?
La Repubblica di Falò. Il 22 aprile 2013, mentre lei preparava il suo discorso di reinsediamento, i giudici di Palermo erano costretti da un’inaudita sentenza della Corte costituzionale a distruggere i cd-rom contenenti le quattro conversazioni legittimamente intercettate sui telefoni di Nicola Mancino, coinvolto nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia. Vuole spiegarci, una volta per tutte, cosa contenevano di tanto imbarazzante per lei quelle telefonate, al punto da spingerla a sollevare un inaudito conflitto di attribuzioni con la Procura di Palermo per sottrarre ai cittadini un fondamentale elemento di conoscenza su un capitolo così buio della storia d’Italia?
Il Discorso del Re. Lo stesso 22 aprile 2013, nel pomeriggio, lei si affacciò alle Camere riunite per un discorso programmatico del tutto sconosciuto alla Costituzione e alle democrazie parlamentari, tipico dei discorsi della Corona e dei capi delle repubbliche presidenziali. Dopo aver giustificato il suo bis con la favola del “drammatico allarme” per l’“impotenza” del Parlamento a eleggere il suo successore (si era votato per appena due giorni, mentre in passato i tentativi a vuoto per l’elezione del Presidente erano durati anche 12 giorni), lei intimò al Parlamento di “riformare la seconda parte della Costituzione” in base ai “documenti dei due gruppi di lavoro da me istituiti il 30 marzo” (i famosi “saggi” nominati al di fuori del Parlamento, non si sa bene con quale legittimità democratica). A che titolo lo fece, visto che aveva appena giurato per la seconda volta di difendere la Costituzione, non certo di rottamarla? Non contento, lei minacciò il Parlamento che l’aveva appena rieletta e il governo che lei stava per formare: “Ho il dovere di essere franco: se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese… Eserciterò le funzioni fino a quando la situazione del Paese e delle istituzioni me lo suggerirà e comunque le forze me lo consentiranno”. Cioè: se e finchè fate come voglio io, resto e vi salvo dai guai; se mi disobbedite, me ne vado e vi lascio nelle peste. Si è mai reso conto che questo si chiama ricatto a due poteri dello Stato – il legislativo e l’esecutivo – che da quel momento non sono stati più liberi né sovrani di operare, sotto la spada di Damocle della sua minaccia?
Il Governo del Presidente. Incurante del popolo sovrano che appena due mesi prima aveva platealmente bocciato le larghe intese (e dell’impegno preso da Pd e Pdl con i rispettivi elettori di non governare mai più insieme), lei aggiunse di aver accettato la rielezione per propiziare un governo di “convergenza fra forze politiche diverse”. Ma non tutte: solo quelle dell’“appello rivoltomi due giorni orsono”. Cioè dei partiti che le avevano chiesto il bis (Pd, Pdl, Centro montiano, Lega Nord). Esclusi dunque i 5Stelle, Sel e Fratelli d’Italia. S’è mai reso conto che il capo dello Stato, durando in carica 7 anni e avendo il potere di nominare il capo del governo e i ministri (che durano in carica al massimo 5 anni), non può subordinare la sua elezione al crearsi di questa o quella maggioranza governativa? Appena due giorni dopo, lei incaricò Enrico Letta, scelto da Silvio Berlusconi in persona, cioè da colui che aveva perso sonoramente le elezioni con 6,5 milioni di voti in meno. E fece subito capire chi era il vero premier, imponendo al Letta travicello cinque suoi fedelissimi in altrettanti ministeri-chiave: Saccomanni all’Economia, Bonino agli Esteri, Cancellieri alla Giustizia, Giovannini al Lavoro, Quagliariello alle Riforme. Conosce qualche precedente simile, nella storia delle democrazie perlamentari?
Saggi su saggi. Il 29 maggio il governo Letta, in accordo con lei, nominò altri 35 “saggi” extraparlamentari, quasi tutti di stretta obbedienza quirinalesca, per scrivere le riforme costituzionali da approvare – assicurò il premier – in Parlamento “entro 18 mesi” per “dare immediato seguito all’impegno preso nel momento in cui si è chiesto a Napolitano di essere rieletto”. E, per abbreviare i tempi, partorì un ddl costituzionale che stravolgeva tempi e modi dell’articolo 138 della Costituzione, quello che regola le riforme costituzionali, e apriva la strada a ogni possibile scassinamento della Carta a tappe forzate. Il 1° giugno lei diede a governo e Parlamento un anno per varare le riforme che le garbavano: “Di qui al 2 giugno del prossimo anno l’Italia dovrà essersi data una prospettiva nuova”, anche perchè l’esecutivo “è una scelta eccezionale e senza dubbio a termine”. Come lui. Il 5 giugno Barbara Spinelli criticò sul Fatto l’ennesima sua interferenza nel potere esecutivo e legislativo, e lei si autosmentì, definendo “ridicolo falso” la notizia che lei avesse “posto un termine al governo”. Poi il 6 giugno, non si sa a che titolo, ricevette i nuovi saggi ricostituenti col ministro Quagliariello, per giunta a porte chiuse. Può dirci quali articoli della Costituzione le consentivano quelle invasioni di campo?
Un condannato al Quirinale. Il 24 giugno Berlusconi fu condannato a 7 anni dal Tribunale di Milano per concussione e prostituzione minorile e sparò a palle incatenate sulla magistratura, paragonata a un “plotone di esecuzione”. Due giorni dopo lei invitò e ricevette il neocondannato “per un ampio scambio di opinioni sul momento politico e istituzionale”. Tutto normale, Presidente?
Cicciobomba cannoniere. Il 29 giugno Camera e Senato approvarono una mozione Sel-M5S che impegnava il governo a sospendere l’acquisto di cacciabombardieri F-35 dall’americana Lockheed fino al termine di un’indagine conoscitiva del Parlamento sui costi e la sicurezza dei velivoli. Lei, furibondo, il 3 luglio riunì il Consiglio Supremo di Difesa ed esautorò il potere legislativo: “La facoltà del Parlamento non può tradursi in un diritto di veto su decisioni che… rientrano tra le responsabilità costituzionali dell’esecutivo”. Se n’è mai pentito?
Dissidente deportata, Alfano salvato. Il 16 luglio il ministro dell’Interno Angelino Alfano lesse in Parlamento una relazione piena di bugie sul rapimento in Italia e la deportazione in Kazakhstan di Alma Shalabayeva – moglie di un dissidente kazako – e della figlioletta Alua a opera della polizia e dei vertici del Viminale. I 5Stelle e Sel presentarono una mozione di sfiducia individuale contro di lui. Il Pd di Epifani, su pressione di Matteo Renzi, chiese le sue dimissioni, ma poi fece marcia indietro quando lei monitò: “È assai delicato e azzardato invocare responsabilità oggettive per dei ministri”. Presidente, s’è poi accorto dell’articolo 95 della Costituzione: “I ministri sono responsabili… individualmente degli atti dei loro dicasteri”?
Troppa grazia, San Giorgio. Il 1° agosto 2013 la sezione feriale della Cassazione presieduta da Antonio Esposito emise la sentenza definitiva del processo Mediaset: B. condannato a 4 anni per frode fiscale. Mentre il Caimano tuonava contro i giudici in un videomessaggio eversivo, lei monitò dalla Val Fiscalina un incredibile elogio per il “clima più rispettoso e disteso” che aveva accompagnato il verdetto e auspicò “che possano ora aprirsi condizioni più favorevoli” per la riforma della giustizia. I berluscones chiesero a gran voce la grazia presidenziale per il capo. Lei, il 2 agosto, non la escluse, anzi: “C’è la legge a stabilire quali sono i soggetti titolati a presentare la domanda di grazia”. Poi ebbe una lunga conversazione telefonica col neopregiudicato. Bondi, Cicchitto e Santanchè intanto le rammentavano i protocolli segreti della sua rielezione e delle larghe intese: “pacificazione”, cioè grazia. Il 5 agosto, di ritorno dalle ferie, lei ricevette i capigruppo Pdl Brunetta e Schifani venuti a chiederle la grazia e promise di “esaminare con attenzione tutti gli aspetti delle questioni prospettate”. Csm e Pg della Cassazione avviarono col suo consenso un procedimento disciplinare e una pratica di trasferimento per il giudice Esposito, imputandogli un’intervista a Il Mattino e ignorando che era stata manipolata per inserirvi riferimenti alla sentenza su B., mai pronunciati dal magistrato. Il 13 agosto lei diramò una lunga nota in cui spiegava a B. che fare per ottenere la grazia: “presentare una domanda”; accontentarsi di una grazia sulla “pena principale” (quella detentiva e non quella accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici); “prendere atto” della sentenza e rispettare i giudici, anche se è “comprensibile” il “turbamento e la preoccupazione per la condanna a una pena detentiva di personalità che ha guidato il governo… leader incontrastato di una formazione politica di innegabile importanza”; sostenere lealmente il governo. Ripensandoci, non trova incredibile che lei, appena 12 giorni dopo una sentenza, abbia speso tanto tempo e tante parole per far balenare una grazia incostituzionale a un politico condannato per un delitto così grave e ancora imputato in altri processi?
Lodo Napolitano-Violante. A settembre la giunta per le elezioni del Senato iniziò a discutere della decadenza del condannato B., prevista in automatico dalla legge Severino. Ma ecco farsi avanti un plotoncino di giuristi legatissimi al Quirinale e capitanati dal “saggio” Luciano Violante che invocavano uno stop in attesa che la Consulta e le Corti europee si pronunciassero sulla legittimità della Severino e della sentenza della Cassazione, per salvare il seggio al neopregiudicato che ricattava tutti minacciando il governo. Lei fece sapere di aver “letto con attenzione e apprezzamento” il “lodo Violante” (poi fortunatamente ignorato dalla maggioranza in Senato). Presidente, s’è mai vergognato di quell’ennesima interferenza? E, già che ci siamo: intervistato da Bruno Vespa per il suo ultimo libro, il ministro Alfano ha rivelato che lei, in un incontro a quattr’occhi nel settembre 2013, si disse “pronto a concedere la grazia”, anche motu proprio (cioè senza domanda), se B. si fosse dimesso da senatore prima che il Senato votasse la sua decadenza e, per soprammercato, a lanciare un appello al Parlamento per un provvedimento di amnistia e indulto (cosa che fece l’8 ottobre, fortunatamente inascoltato). Lei non ha mai smentito. Sono dunque ridicole panzane quelle che lei ha poi raccontato il 20 ottobre 2013, quando definì “ridicole panzane” le notizie sulla sua promessa di grazia a B.?
Testimone obtorto Colle. Da quando, il 17 ottobre 2013, la Corte d’Assise di Palermo la convocò come teste nel processo Trattativa, lei fece il possibile e l’impossibile per sottrarsi al suo dovere di testimoniare, sostenendo di non aver “alcuna conoscenza utile da riferire” su quanto le scrisse il suo consigliere Loris D’Ambrosio (poi scomparso) su confidenze fattele a proposito di “indicibili accordi” fra Stato e mafia. Perchè allora quando il 28 ottobre 2014 si decise finalmente a testimoniare, parlò per più di tre ore, rivelando importanti fatti che aveva taciuto per vent’anni (il progetto di attentato mafioso contro di lei e Spadolini nel luglio ’93; il timore di un “colpo di Stato”; la consapevolezza dei vertici dello Stato che le bombe mafiose fossero finalizzate a ricattare il governo Ciampi per ottenere l’alleggerimento del 41-bis)?
Nessuno tocchi Nonna Pina. Nel novembre 2013 finì nei guai la ministra della Giustizia Cancellieri, indirettamente intercettata sui telefoni della famiglia Ligresti mentre solidarizzava con gli amici imprenditori plurinquisiti per il crac della Fonsai (di cui era manager il figlio), si metteva a loro disposizione, brigava per fare scarcerare Giulia Ligresti e si abbandonava a dure critiche ai magistrati. Dinanzi alla mozione di sfiducia di M5S e Sel e alla richiesta di dimissioni avanzata anche da Renzi, lei tornò a interferire, ricevendo la ministra e auspicando “l’ulteriore pieno sviluppo dell’azione di governo da lei avviata”. Letta telefonò a Renzi: “Ho sentito il presidente della Repubblica, ti chiediamo di ritirare la tua richiesta”. E l’indecente ministra si salvò, come Alfano. Signor Presidente, che cos’è per lei il Parlamento?
Parlamento abusivo, dunque è ok. Il 4 dicembre 2013 la Consulta cancellò il Porcellum, giudicandolo illegittimo sia per l’abnorme premio di maggioranza al partito o alla coalizione più votati, sia per le liste bloccate che “alterano per l’intero complesso dei parlamentari il rapporto di rappresentanza fra elettori ed eletti… coartano la libertà di scelta degli elettori… contraddicono il principio democratico, incidendo sulla stessa libertà del voto”. E così delegittimò in radice l’attuale Parlamento eletto con quella legge, il presidente della Repubblica e il governo da esso espressi, nonché la maggioranza che non esisterebbe senza il premio abnorme ora cassato. Ce n’era abbastanza per mettere subito in cantiere una riforma elettorale purchessia (semprechè non si condividesse quella disegnata dalla Corte depurando il Porcellum dai suoi profili incostituzionali: il proporzionale puro con preferenza unica, simile alla legge elettorale con cui si votò nel 1992) e poi sciogliere le Camere infette e restituire rapidamente la parola agli elettori, cioè al popolo sovrano. Lei invece, il 5 dicembre, prim’ancora che la Corte depositasse le motivazioni della sentenza, se ne infischiò: decise che “questo Parlamento è legittimo” e gli dettò un programma per l’intera legislatura: “riforma elettorale che superi il sistema proporzionale” e “modifiche costituzionali almeno per il numero dei parlamentari e per il bicameralismo perfetto”. Ma come si permise il presunto “garante della Costituzione” di imporre a un Parlamento appena dichiarato antidemocratico e abusivo dalla Consulta di restare in piedi sino a fine legislatura, e addirittura di modificare la Costituzione e la legge elettorale, dandogli per giunta precise indicazioni sui modelli da seguire?
Un anno vissuto indecorosamente. Il 2014, che sta sta per concludersi, è stato l’anno di Matteo Renzi. Che il 18 gennaio siglò, con la benedizione del Colle, il Patto del Nazareno con B. per farlo rientrare dalla finestra dopo che era uscito dalla porta a fine novembre, abbandonando il governo Letta all’indomani della sua decadenza da senatore. Il giovane e spregiudicato segretario del Pd, a metà febbraio, defenestrò Enrico Letta per prenderne il posto e il 22 febbraio giurò nelle mani di un Napolitano inizialmente contrariato, poi sempre più rassegnato, infine addirittura complice. Lei comunque, Presidente, non rinunziò a mettere le mani nella lista dei ministri: non per escluderne gli impresentabili, ma per cancellare dalla casella della Giustizia l’elemento migliore della lista renziana: il pm anti-’ndrangheta Nicola Gratteri, cassato in nome di un’inesistente “regola non scritta” che escluderebbe a priori i magistrati dalla carica di Guardasigilli (e allora perchè lei, nel 2010, nominò a quell’incarico il magistrato forzista Francesco Nitto Palma, nel terzo governo B.?). Con Renzi a Palazzo Chigi, i suoi moniti ed esternazioni si sono fatti più radi, ma non per questo meno discutibili o indecenti (almeno quanto certi suoi silenzi).
Presidente, non conosceva proprio un giurista meno compromesso con l’Ancien Regime e in conflitto d’interesse di Giuliano Amato da nominare alla Consulta? Sicuro di aver detto tutta la verità sulla nascita del governo Monti nel novembre 2011, alla luce delle rivelazioni di Alan Friedman sui suoi abboccamenti col Professore fin dall’aprile di quell’anno?
Perchè lei ha smesso di sferzare il Parlamento affinchè elegga il quindicesimo giudice costituzionale, lasciando la poltrona vacante ormai da sei mesi?
Anzichè telefonare un giorno sì e l’altro pure ai due marò imputati in India di un duplice omicidio ed elevarli a eroi nazionali, perchè non ha mai trovato il tempo e le parole per esprimere la solidarietà e la vicinanza dello Stato al pm Nino Di Matteo, condannato a morte da Cosa Nostra (con tanto di tritolo già acquistato dai boss e nascosto a Palermo) e al pg Roberto Scarpinato, minacciato fin dentro il suo ufficio da uomini di apparato ben sicuri dell’invisibilità e dell’impunità?
Con che faccia il 2 aprile scorso ha ricevuto al Quirinale il pregiudicato B. “per parlare delle riforme e del fronte giudiziario” (Corriere della sera, mai smentito)?
Come si è permesso, a luglio, di bloccare il Csm che stava per votare per Guido Lo Forte come nuovo procuratore di Palermo, costringendo il Plenum a seguire l’ordine cronologico delle nomine (mai seguito prima) solo per rinviare la decisione al successivo Consiglio, che poi ha nominato Franco Lo Voi, guardacaso il candidato meno titolato ed esperto, ma più gradito ai politici di destra e di sinistra, e naturalmente a lei?
A che titolo una figura super partes quale dovrebbe essere la sua ha continuato a difendere il Jobs Act e le controriforme della giustizia e della Costituzione, invitando opposizioni, sindacati e Anm a non opporsi?
Come si è permesso di imporre al Csm, con una lettera rimasta segreta, di sbianchettare le critiche all’operato del procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nella gestione del conflitto aperto con il suo aggiunto Alfredo Robledo, incancrenendo così lo scontro nell’ufficio giudiziario più cruciale d’Italia?
Quando ha scoperto che “il bicameralismo perfetto fu un errore dei padri costituenti”, visto che lei entrò in Parlamento nel lontano 1953 senza mai dire una parola? E perchè non s’è accorto che “il Senato è un inutile doppione della Camera” nel 2005, quando accettò la nomina a senatore a vita senza fare un plissè?
Che le è saltato in mente di cerchiobottare fra guardie e ladri, mettendo sullo stesso piano il dilagare di corruzione e crimine organizzato – divenuti un tutt’uno nel sistema Mafia Capitale – e il presunto e imprecisato “protagonismo dei pm”?
Come può chiedere ai magistrati di “non guardare con diffidenza i politici”, quando i politici sono i più corrotti dell’Occidente? E con che faccia può definire “eversiva” la cosiddetta “anti-politica”, quando la politica si riduce alla fogna degli scandali Expo, Mose e Mondo di Mezzo, questi sì “eversivi”?
Perchè non ha detto una parola – da garante della Costituzione – sull’Italicum che riproduce gran parte dei profili di incostituzionalità già sanzionati dalla Consulta nel Porcellum?
Quando invoca il “rinnovamento” contro i “conservatorismi”, non le viene da ridere, essendo il primo freno al cambiamento, con la sua rielezione a 88 anni e con l’imbalsamazione dell’Ancien Regime di cui è sempre stato il santo patrono e il lord protettore?
Non s’è pentito di aver così platealmente attaccato, anche in campagne elettorali, un movimento politico con milioni di voti come i 5Stelle, tacendo invece sull’ultima versione sempre più razzista e fascistoide della Lega Nord?
Perchè, dopo averlo duramente censurato ai tempi di Prodi e in parte di B., ha smesso di denunciare l’abuso di decreti e fiducie da parte dei governi Monti, Letta e Renzi, guardacaso i tre creati o avallati da lei all’insaputa degli elettori?
S’è mai domandato perchè, fino a tre anni fa, lei godeva di oltre l’80% di consenso nei sondaggi, mentre dal governo Monti in poi è sceso sotto il 50?
Non crede di aver abusato del suo potere lanciando continue minacce al governo e al Parlamento, tipo “riforme o me ne vado”, ma anche “riforme o resto”?
Siccome tutti nel Palazzo sanno che il 14 gennaio 2015 lei annuncerà le sue dimissioni, non le pare il caso di comunicarlo anche ai cittadini italiani, anziché seguitare a sfidarli con sciarade e indovinelli?
Siccome è al passo d’addio, non crede che il bilancio del suo secondo mandato sia un fallimento totale, con tutti gli indicatori economici in picchiata (tranne quelli della corruzione, dell’evasione e delle mafie) e nessuna delle riforme da lei dettate nel messaggio di reinsediamento approvate?
Può rassicurarci sul fatto che ora non interferirà nella scelta del suo successore per rifilarci un suo clone, tipo Giuliano Amato o Sabino Cassese?
E, siccome considera il Senato un ente inutile, si impegna a evitare di frequentarlo da senatore a vita e a ritirarsi a vita privata?
È un peccato che Montanelli non sia più fra noi. Altrimenti potrebbe dedicarle il Controcorrente che riservò nel 1985 a Sandro Pertini quando lasciò il Quirinale: “Il senatore Pertini ha annunciato che intende rientrare nella vita politica e ingaggiare battaglia per il riavvicinamento tra Psi e Pci. Con quest’uomo abbiamo sbagliato due volte. La prima, mandandolo al Quirinale. La seconda, rimettendolo in libertà”.

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