Dello Psycho di Alfred Hitchcock si sa praticamente tutto, ma forse in pochi, almeno in Italia, hanno letto il romanzo omonimo di Robert Bloch del 1959 da cui il film, uscito nel 1960, è tratto. L’operazione letteraria di recupero offerta dal volume Psycho, edito da Il Saggiatore a ridosso del Natale 2025, è di quelle da acciuffare al volo per la sua volenterosa e organica curiosità. Si tratta di un combinato tra la novella di Bloch (con la traduzione originale di Bruno Tasso), uno stralcio di intervista di Truffaut a Hitchcock e locandine di libro e film uscite in mezzo mondo. E non solo è la constatazione che Bloch aveva già fatto ben più di mezzo lavoro rispetto al film visto in sala, ma che gli accorgimenti deliziosi ed efficaci compiuti nello script da Joseph Stefano e dietro la macchina da presa da Hitchcock sono il risultato di intuizioni irripetibili.
Dicevamo dello scheletro generale del racconto che Bloch assesta tra tutte le micro, inattese svolte (l’omicidio della protagonista – nel film star di livello come Janet Leigh – dopo poco tempo o la strana ricerca/scomparsa compiuta dal detective Arbogast, ad esempio). Tutto nel romanzo fila già senza intoppi, e con il giusto alone di mistero. Da lì, quindi, è solo farina del sacco del maestro del brivido che si era cocciutamente messo in testa, nonostante la Paramount ne rigettasse le continue richieste, che Psycho sarebbe stato un film di successo.
“In Psycho del soggetto mi importa poco, dei personaggi anche. Quello che mi importa è che il montaggio dei pezzi del film, la fotografia, la colonna sonora e tutto ciò che è puramente tecnico facciano urlare il pubblico”, spiegava il regista inglese all’autore de I 400 colpi (frase presente nel libro di Il Saggiatore). Poco importa che per Bloch Marion nel romanzo fosse coi capelli neri (la Leigh è bionda nel film) o che Norman Bates risulti “con la faccia grassa e occhialuta” (sarà poi Hitch a metterci tutta l’ambiguità postmoderna di Anthony Perkins). Psycho possiede già in nuce quelle tracce di orrore e di terrore che poi script e film svilupperanno magistralmente.
“E un attimo dopo il coltello le mozzò il grido. E la testa”, scrive Bloch per descrivere l’omicidio di Marion. Una mezza riga a fronte di tre minuti, dilatati, pulsanti, devastanti che Hitch inventa per la Leigh sotto la doccia, semplicemente accoltellata senza decapitazione. Il regista britannico, del resto, era così convinto che quella storia funzionasse a meraviglia che, per non concedere vantaggi allo spettatore, chiese ai suoi tirapiedi, ancora prima che iniziasse la pre-produzione del film, di acquistare tutte le copie presenti in commercio negli Stati Uniti.
Per questo è utile recuperare il testo di Bloch, perché paradossalmente si gustano meglio proprio quelle scelte stilistiche che renderanno il film memorabile. A partire dalla caduta di Arbogast dalle scale dopo le coltellate subite, stuzzicante soluzione pratica e ad effetto sul set, sospensione immateriale che, a ben vedere, ha proprio la sostanza della titolistica di Saul Bass (qui lasciato scorrazzare da Hitch per la composizione delle inquadrature). Niente male l’apparato iconografico dell’edizione Saggiatore, con il recupero della cover – tra le decine di altre successive – del romanzo nell’edizione originaria del 1959 di Simon & Schuster: un profilo di donna giovane coi capelli neri si staglia enorme dietro a un motel e sulla sinistra, di spalle, si intravede un uomo che somiglia tanto, con quel baschetto in testa, a Ed Gein, spietato serial killer devastato dall’incombente figura materna, che ha ispirato Bloch, quindi Hitch, poi Jonathan Demme per Il silenzio degli innocenti.