Cultura

Chi sono i nuovi montanari? In viaggio con Karl Marx tra gli abitanti delle terre alte: le risposta (e le domande) nel libro di Membretti

Upper class, middle class e under class: tre tipi di persone che scelgono di vivere in montagna tra cambiamenti climatici e nuovi stili di vita

di Alberto Marzocchi

C’è un’inversione di tendenza. Dopo decenni di spopolamento, saracinesche abbassate, attività chiuse e aree interne abbandonate – nonostante lo sci, nonostante il turismo di massa – c’è un’inversione di tendenza. Negli ultimi cinque anni, tra Alpi e Appennini, il saldo tra nuovi residenti e fuoriuscite, almeno per quanto riguarda lo spostamento di residenza, è positivo. Lo certifica il Rapporto Montagne Italia 2025 dell’Uncem. E allora Andrea Membretti è andato sul campo. Per la verità, sul campo c’è sempre stato – e, neanche a dirlo, ancor prima della pubblicazione del dossier dell’Uncem – dal momento che da anni si occupa di comunità montane, poiché tra i fondatori di Riabitare l’Italia e tra i coordinatori del progetto Scuola di montagna con l’Università di Torino. Ma questa volta si è fatto accompagnare niente di meno che da Karl Marx. E le riflessioni (di entrambi, viene da dire) sono finite in un bel libro, edito da People in collaborazione con L’Altra montagna, dal titolo Diventare montanari (14 euro, 155 pagine).

Prima l’ossatura delle ricerche scientifiche di Membretti, che innanzitutto è sociologo all’Università di Pavia e alla Bicocca, con un occhio a un nuovo, dirimente fattore che ha tenuto in considerazione nella sua indagine: i cambiamenti climatici e la volontà di adattarsi ad essi. Prima l’ossatura, dicevamo, in mezzo gli spunti, le domande, i crampi mentali per i quali forse allo stato attuale delle cose non abbiamo una risposta definitiva. Ma che servono a ragionare. E, vivaddio, a orientarci. E quindi, le classi sociali. Sì, quelle che la narrazione capitalista vorrebbe seppellire, ma che a fronte di un mondo sempre più diseguale, polarizzato, diviso tra ricchi e poveri, esistono. E dunque i nuovi montanari di Membretti sono principalmente tre. Quelli che lui raggruppa in upper class, middle class e under class.

La upper class di ricchi “in crescita numerica, a livello globale, mai come ora. Preoccupati a modo loro del mondo che va male, del clima che cambia, delle città insicure, e desiderosi di spazi di separatezza sociale […] spazi che si possono trovare in montagna, magari in qualche resort alpino d’alta quota, nella forma di una ‘seconda città'”. Membretti trascorre mesi, per la sua ricerca, nella città-di-montagna di Crans-Montana, in Svizzera, incontrando dirigenti d’azienda, professori universitari, proprietari di co-working e pensionati che hanno ereditato appartamenti nella nota località alpina. “Il clima emerge come fattore sempre più rilevante […] questa graduale presa di coscienza come elemento positivo si ritrova nell’intenzione di restare a vivere” qui. E allora “anche i ricchi migrano oggi e migreranno ancora più in futuro dalle città verso le montagne come forma di adattamento al cambiamento climatico? È possibile che le persone più benestanti considerino la necessità, e non più solo il piacere o il desiderio, di spostarsi a vivere per lunghi periodi nelle terre alte?”. Probabilmente sì, in posti come Crans-Montana, dove si trova di tutto, mondanità compresa, e un aeroporto a portata di mano. E dove, per dirla con Membretti, “pago gli spritz, più o meno l’equivalente di una cena a Milano, e torno verso il mio studio. Mi viene da fischiettare l’Internazionale mentre salgo le scale, ma prudentemente mi astengo”. L’urbanità trasportata in montagna. Ha senso, può funzionare? E quali aspetti positivi presenta, se li presenta?

Ma tra i nuovi montanari c’è anche chi fa parte della cosiddetta classe media. Una classe media sempre più esigua, stretta tra un potere d’acquisto che si è andato progressivamente deteriorando, la mancanza di prospettive di crescita e la paura di perdere tutto e scivolare ai margini della società. Ed ecco allora che persone con un bel bagaglio culturale, da una parte, e qualche risorsa a disposizione, dall’altra, scelgono di cambiare vita. Aiutati sì dalle possibilità economiche, ma anche da quelle professionali, vale a dire il lavoro agile da un lato, e la scelta di buttarsi nell’avventura di un nuovo mestiere, cambiando totalmente vita. C’è chi prende in mano un rifugio, chi diventa guida escursionistica, chi apre un agriturismo e chi fa l’agricoltore. E in questo senso “il futuro proiettato in montagna è visto come salvifico“. Cioè “un modo per uscire da quel mondo metropolitano che consuma giorno per giorno, che impoverisce le relazioni, il corpo e la creatività di ciascuno” con lo scopo più o meno consapevole – e non secondario – di “mantenere la propria posizione sociale, cambiando collocazione nello spazio”. E come ha detto una persona intervistata da Membretti: “Certo, vita semplice non vuol dire vita facile […] Qualcuno parlerebbe di rinuncia, ma per noi è stata una vera liberazione“. In tutto ciò, per Membretti, il fattore climatico “sembra rivestire un ruolo crescente”.

E da ultimi, dopo i montanari “per scelta”, ci sono i montanari “per necessità” e “per forza”. I primi sono sostanzialmente migranti economici, persone che per vivere trovano lavoro nell’edilizia, nella pastorizia, nell’agricoltura, nel turismo e nei servizi alla persona. Come nota Membretti, un fenomeno che è sempre esistito (si pensi al popolo Walser, per esempio) ma che ora ha numeri imparagonabili col passato e, soprattutto, una distanza geografica e culturale, rispetto al luogo di approdo, senza precedenti. I secondi invece sono i profughi, i richiedenti asilo e protezione, “spinti in Italia da guerre o calamità naturali e che vengono indirizzati dal governo centrale (senza margini di scelta) in montagna, in attesa del vaglio delle loro richieste di accoglienza”. Membretti sottolinea il “ruolo fondamentale” che entrambi “rivestono nei sistemi socio-economici locali”, perché da una parte frenano l’emorragia demografica e lo spopolamento, e perché dall’altra colmano “le diffuse lacune professionali delle aree montane“. Tuttavia il loro positivo ruolo viene di fatto “negato da politiche nazionali che non li considerano come agenti di sviluppo territoriale, ma piuttosto come minacce all’ordine pubblico, oppure come un costo per le casse dello Stato”.

Mail: a.marzocchi@ilfattoquotidiano.it
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