Chi ha paura di Lady Macbeth, il terribile personaggio di Shakespeare? La risposta è: tutti. Meglio non trovarsela sul cammino. Semina morte e distruzione, rovina il consorte, finisce pazza. Personifica il male, assoluto, totalizzante. Ma perché Šostakovič intitola Lady Macbeth la sua opera che il 7 dicembre apre la stagione lirica della Scala? Per lo stesso motivo: la protagonista è malefica, distruttiva. Ma attenzione: se la Lady shakespeariana non mostra sentimenti d’amore, quella di Šostakovič è divorata da una passione erotica bruciante. Non fu il compositore a inventare il personaggio: ne stese il libretto assieme ad Aleksandr Prejs, ma ne trasse il soggetto da una novella di Nikolaj Leskov (1831-1895), Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, risalente al 1865, una settantina d’anni prima. È però evidente che il titolo rimanda al drammaturgo inglese. E nel contempo fa il verso a un racconto di Ivan Turgenev, Un Amleto del distretto di Ščigry (1849), che ritrae la meschinità imperante nella borghesia russa di provincia.
Non stupiamoci di questi scambi. Nell’Ottocento Shakespeare furoreggia in tutta Europa: entusiasticamente riscoperto dai romantici, è per così dire un autore del giorno. In francese o in tedesco, lo si legge anche in Russia. Negli anni Venti un giovane letterato di origini tedesche, Vilʹgelʹm Kjuchelʹbeker, tradusse in russo alcuni drammi, a cominciare proprio dal Macbeth. E su Shakespeare un suo compagno di liceo, il grande Aleksandr Puškin, modellò il Boris Godunov (1825), dramma storico che mezzo secolo più tardi, in mano a Modest Musorgskij, cambiò la faccia dell’opera russa.
In Leskov e in Šostakovič la Lady Macbeth del titolo è Katerina L’vovna Izmajlova, che, ci dice lo scrittore ad apertura, non “cessò mai di recitare un dramma terribile, a causa del quale i signori della nostra nobiltà cominciarono a chiamarla con il dolce nome di Lady Macbeth del distretto di Mcensk” – e già qui s’intravede il rapporto fra classi sociali differenti: i nobili leggono, i commercianti di provincia no. La bella Katerina, annoiata della vita senza stimoli nella sterminata campagna della provincia di Orël (300 e più km a sud di Mosca), oppressa dal controllo dei maschi di casa – il suocero tiranno Boris e il frigido marito Zinovij – fa l’amore con un disinvolto lavorante dell’azienda, Sergej: messasi d’impegno, si sbarazza del suocero avvelenandolo, del marito strangolandolo, infine di un ragazzino, Fedja, spuntato dal nulla come co-erede del patrimonio, soffocandolo. Scoperta, condannata ai lavori forzati col suo spasimante, durante il trasferimento verso la Siberia butta infine nel Volga la nuova fiamma di lui, Sonetka, gettandosi anche lei nelle onde. Solo Sergej viene risparmiato. Questo lo sviluppo della truce novella.
Ma chi è questa donna? Di estrazione modesta, Katerina ha sposato un ricco mercante, la sua vita trascorre senza luce né speranza, intrisa di tedio e solitudine. Non ha figli: è colpa di lui, dice. La mancata maternità la inasprisce, stimola fastidio e disprezzo per il coniuge. È donna passionale, riccioli neri, seno prosperoso, occhi ardenti: quando, a un tratto, nella sua vita irrompe Sergej, classe inferiore, piglio vigoroso, deflagra l’incendio dei sensi. Non ci si può fermare: la strada del delitto è spalancata.
Eppure nella novella, checché se ne dica, non mancano le dolcezze, gli abbandoni, le malinconie. Non è vero, almeno dapprincipio, che quella di Katerina e Sergej sia solo una faccenda di sesso nudo e crudo, una tresca senza sentimenti. Quando il marito sta per tornare da un viaggio, il giovane lavorante pronuncia parole dolorose: “Dovrò vedere un altro uomo che ti prende per le bianche braccia e ti porta in camera da letto, dovrà il mio cuore sopportare tutto questo, e forse sentirmi per tutta la vita un uomo spregevole?“. E di seguito: “Io non sono come gli altri, ai quali va bene tutto per ottenere dalla donna soltanto il piacere. Io so che cos’è l’amore e in che modo succhia il cuore come fa un nero serpente…”. Il problema di classe emerge a tratti, e Sergej lo vive come un blocco insuperabile: “Se fossi un signore o un mercante come voi, io non mi separerei da te e non rinuncerei a te per tutta la vita”. E continua insinuante: “Io vorrei essere tuo marito davanti alla Santa Chiesa: allora, anche se mi considererò sempre inferiore a te, potrei mostrare a tutti quanto rispetto meriti da mia moglie”. Provvederà poi l’epilogo a rivelarci la vera natura dell’ardente giovane, donnaiolo volubile e opportunista.
L’uccisione di Fedja, adolescente malaticcio, dà una svolta definitiva alla storia. Detto en passant, anche questo episodio rimanda al Macbeth shakesperiano, al tentato assassinio del figlio di Banco, Fleance, che però si salva. Ormai coniugi, i due amanti della novella di Leskov vengono infine scoperti, arrestati e condannati: lei abbandona senza lacrime il figlio concepito con Sergej; continua ad amare l’uomo “più ardentemente di prima”; lui si trastulla invece con Sonetka, galeotta compiacente. La situazione, insostenibile, scatena l’epilogo funesto.
Il racconto di Leskov fu apprezzato e godette di una pacifica fortuna. Alla fin fine era una tranche de vie alla maniera del coevo Émile Zola, intrisa di crudo naturalismo: una brutta storia di amore, sesso e crimini, narrata con studiato distacco. Anche nel Novecento, negli anni di Stalin e dei suoi piani quinquennali, continuò tranquillamente ad essere letta, senza suscitare censure. Non così la Lady Macbeth di Šostakovič, data in Prima a Leningrado il 22 gennaio 1934, e il 24 a Mosca, acclamata per due anni in Russia e nel resto dell’Occidente, ma infine pesantemente attaccata e censurata dal regime. Nel gennaio 1936 uscì sul quotidiano del partito, la Pravda, un articolo anonimo, intitolato Caos anziché musica, a quanto pare ispirato e comunque approvato da Stalin, che denunciava l’opera come “musica confusa, volutamente cacofonica”, “antipopolare”, “estranea allo spirito sovietico”. Ce n’era abbastanza per metterla a tacere nell’Urss, per quasi trent’anni. Di fatto, quell’articolo fu il primo lancio pubblico del programma estetico-ideologico del cosiddetto “realismo socialista”.