L’accettazione delle ombre come parte della persona e una denuncia contro la società, un certo modo di concepire la cultura hip-hop, la poca sensibilità diffusa e l’alienazione. È il cuore di “Incubi”, il nuovo album di Nitro, che arriva a due anni di distanza dall’ultimo. Un progetto di 15 tracce in cui, tra riferimenti al cinema horror e alla cultura pop, il rapper veneto si mette a nudo con le sue paure: dal dover fare i conti con “l’individualismo dilagante”, fino alla difficoltà a gestire il successo.
Un tema, quello della fama, ripreso anche nella copertina del disco, con numerosi occhi che guardano l’artista, appoggiato sognante a un albero. “Nella musica il percorso che si fa è una scalata osservata al millimetro da tutti, che possono guardare ogni tuo errore e sono pronti a ingigantirlo. Gli occhi simboleggiano proprio questo – ha confessato Nitro a FqMagazine –. La collina dell’artwork, invece, mi ricorda ciò che ho dovuto fare per essere dove sono”. Per la realizzazione di “Incubi”, Nicola Albera (vero nome dell’artista) ha chiamato a collaborare Silent Bob, Sally Cruz, 22Simba, Niky Savage, Madman, Nerone, Tormento e Salmo. “Volevo dare un messaggio forte di credibilità. In questo disco ci sono quattro generazioni di rap”, ha spiegato. L’album sarà presentato con un tour nei club nel 2026.
“Finiti i sogni, ho realizzato gli incubi”. Questo disco è una ricerca della parte oscura dell’animo umano?
È il disco dell’accettazione dei lati oscuri. Con il tempo ho capito che i miei lati negativi sono parte di me e contribuiscono alla realizzazione di quelli positivi. È importante rendere quello che è distruttivo, costruttivo.
Quali sono i tuoi incubi più grandi?
Non mi piacerebbe morire senza aver fatto tutto ciò che volevo: penso sia uno dei miei più grandi incubi. È una considerazione a cui sono giunto anche perché, la settimana di uscita del mio disco “Outsider” (2023, ndr), ho scoperto di avere un tumore maligno alla pelle che avevo rimosso. Mi avevano detto di stare tranquillo e che probabilmente era pure benigno. E, invece, il giorno di pubblicazione dell’album sono venuto a sapere che non era così. Questa rivelazione mi ha sconvolto: non tanto per la gravità della cosa, quanto perché l’ho scoperto accompagnando la mia ragazza a una visita dermatologica. Se non fossi andato con lei, chissà se adesso staremmo parlando.
Come hai affrontato questa scoperta?
Per fortuna non ho dovuto far ricorso a terapie invasive e oggi mi tengo sotto controllo, ma questa sliding door della mia vita mi ha fatto riflettere sul non dover dare niente per scontato. Ho deciso di alzarmi ogni giorno e poi andare a letto consapevole di aver fatto qualcosa per la mia crescita personale e artistica. La casualità mi ha spaventato: potevo scoprire del tumore molto più tardi con conseguenze molto più gravi. Vivo un po’ con il senso di colpa del sopravvissuto, il fatto di avercela fatta non per un merito o un interessamento, ma per una fortuna casuale.
In “Storia di un artista” racconti dei tuoi problemi con l’alcol, di esserti perdonato poco e di aver “sfiorato l’overdose”. Come hai vissuto quella fase della tua vita?
Quello che ho vissuto mi ha fatto capire che posso arrivare molto in basso, ma anche altrettanto in alto. In “Storia di un presunto artista” e “Storia di un defunto artista” parlo di tante cose che sono per me essere artista. In “Storia di un artista” (che chiude la trilogia, ndr) vado a smontare la figura, parlo delle sue lacune. È come prendere le crepe di un vaso, sigillarle con l’oro e dire: “Le mie cicatrici mi hanno portato qui”. Le mostro con orgoglio perché significa che ho acquisito la consapevolezza di avere sbagliato e perso la rotta. Spero che la mia storia possa essere d’esempio anche per gli altri, che capiscano che avere i soldi e il riconoscimento in quello che si fa non è niente se tu per primo non impari a volerti bene. E io su questo ho peccato per tanti anni.
A cosa dai importanza oggi?
All’essere me stesso. Dal punto di vista artistico, ciò che mi rende felice adesso è essere parte di una comunità solida nell’hip-hop e riuscire a far brillare anche gli altri, senza invidia e menzogne scaturite dall’ego.
“Il successo ti brucia il cervello anche più del cash”. Hai avuto difficoltà a gestire la fama?
Da giovane ero più spensierato, mentre più cresco più vedo che faccio fatica. Adesso mi viene l’ansia sociale se penso di dover uscire di casa senza il giusto umore. Il successo mi ha fatto molto soffrire perché ci tengo alla mia normalità, apprezzo molto di più una chiacchierata che solo una foto con un fan. Per me un bravo artista non è tanto un bravo paroliere, ma un buon ascoltatore: chi riesce a comprendere i disagi della propria generazione e di chi ha intorno.
In “Odio il rap” fai una lista di aspetti che non condividi del genere. È una critica alla discografia e al modo di fare musica?
Sì, ma è anche una critica agli artisti che amano puntare il dito contro le major quando fanno un passo falso. E invece spesso sono loro che si fanno comprare dai risultati facili. Io sono in major, ma faccio il ca**o che voglio perché semplicemente ho la testa più dura. Chi lavora nella discografia ha visto persone che hanno cambiato la musica e anche tanti fuochi di paglia, ma scegli tu se essere generazionale o modaiolo.
Che direzione hanno preso i giovani rapper?
La mia generazione era super punk, loro al primo singolo stanno già parlando di manager, contratti, numeri e si sta perdendo la parte essenziale dell’arte che è il divertimento, la genuinità. È possibile trovare un compromesso tra chi vuoi essere e chi gli altri vorrebbero che tu fossi o avere la consapevolezza di poter prendere la propria strada. “Odio il rap” non vuole criticare, ma mettere in dubbio delle certezze. Il mea culpa finale è un modo per dire che neanche io sono esime da quello che dico nella canzone.
“Un giornale di settore dice che non c’è emozione, io cado in depressione e vado in terapia per sta bugia di recensione”. Ti hanno fatto male i giudizi altrui?
Quando vengo criticato, la prima cosa che faccio prima di rispondere è mettermi un dubbio. Mi chiedo se io sia veramente più scarso di prima, se magari abbia perso lo smalto. Se un giudizio è costruttivo e ragionato sono il primo ad ammetterlo, tutti hanno diritto alla critica. Ci rimango genuinamente male quando ciò che dico viene frainteso e l’intenzione capovolta, penso di fare musica con passione, è tutta la mia vita. A volte mi sembra che si pestino i piedi agli animi sensibili e si tratti come leccac*lo chi invece si disinteressa delle idee altrui.
In Vipere canti “viva la censura depura l’ambiente, tv spazzatura e cultura apparente” e in Macerie “è questa realtà che ha un che di anestetizzante”. Viviamo in un mondo alienato?
Secondo me siamo molto alienati e desensibilizzati. Riceviamo tante informazioni brevi e frammentarie e non ci prendiamo più il tempo di pensare prima di dire le cose. Invece a volte il silenzio è l’arma migliore per riflettere e comprendere al meglio. Mi sembra che ci sia tanta urgenza di dire la propria opinione, ma poca voglia di capire le situazioni in ogni campo. Penso che sia l’epoca dove sia più difficile farsi ascoltare in generale. La gente ti guarda negli occhi e sta solo aspettando di rispondere senza neanche prestare attenzione a quello che dici. L’individualismo dilagante è un tema pesante dei nostri giorni.
È una situazione che soffri?
Si, perché non puoi dire nulla a chi si comporta in questo modo: replicheranno che non puoi capirli. Il mondo, oggi, cerca di convincerti che devi essere sempre sorridente e far vedere solo i successi e non le lacune e i fallimenti. Sembra un raduno di alcolisti anonimi in cui, invece di mostrarsi aperti ad aiutare gli altri, li si insulta. C’è il terrore di sembrare vulnerabili perché ognuno può usare la tua vulnerabilità a suo piacimento. La gente non balla alla serate perché ha paura di essere ripresa e che diventi la barzelletta di internet. Mi sembra di essere in un matrix in cui tutti sono pronti a sputtan*rti.
“Ognuno chiede i soldi più lo compri e più si vende. Partecipiamo tutti ad un GF”. Difendiamo troppo poco le nostre idee e i nostri valori in nome del denaro?
Abbiamo sempre criticato giornali, tv e istituzioni perché dicevano cose false nell’interesse di persone che li finanziavano, i partiti perché magari decidono chi va in tv e chi no, abbiamo sempre dato dei venduti a chi sta nelle istituzioni. E noi per primi, in ambito artistico, ci siamo venduti a molto meno. Puoi darmi tutto il denaro che vuoi, ma non dirò mai che una roba mi piace se mi fa schifo. È un ragionamento che vale per tutti gli ambiti: per soldi, le persone vanno ad ammazzare i bambini senza alcuno scrupolo.
In “Luci blu” dici “non leggiamo articoli ma ci fermiamo ai titoli, nel nome del degrado brandizzato e made in Italy”. Si approfondisce poco la realtà?
C’è tanta voglia di commentare e poca di capire. Quando leggo una notizia cerco sempre tre, quattro fonti diverse per capire quale potrebbe essere la verità. È brutto vivere in un mondo dove sai che ognuno dice quello che pensa in base a ciò che gli conviene o torna in tasca. È difficile essere onesti perché tra tanti imbroglioni l’onesto sembra un cogl*one.