Si chiama Goli Kouhkan e rischia di finire impiccata. La sua storia in Iran non è un’eccezione
di Alberto Minnella
C’è, in un angolo dimenticato dell’Iran, una ragazzina che oggi rischia di finire impiccata. Si chiama Goli Kouhkan, e già il nome pare un fiore calpestato. Quando le misero il velo bianco della sposa aveva dodici anni, e il mondo per lei finì ancor prima di cominciare. Lo sposo era un parente, scelto dalla famiglia, e il matrimonio fu celebrato come si fa con le capre, un contratto, una transazione tra poveri.
Non c’è nulla di romantico in questa storia raccontata da The Guardian, solo miseria, superstizione e una donna bambina consegnata al suo destino come un oggetto di casa, con il silenzio delle madri e l’indifferenza dei padri.
Goli non ebbe infanzia, né scuola, né giochi, né quella libertà che da noi consideriamo un diritto naturale. Ebbe invece un marito violento, crudele, padrone. Viveva tra le mura di fango di un villaggio sperduto, dove la parola “giustizia” non arriva e la legge si chiama paura. Ebbe anche un figlio, piccolo, di cinque anni, che un giorno vide picchiare con la stessa furia cieca che aveva devastato la madre. Fu allora che accadde il dramma. Nella colluttazione l’uomo morì. Un gesto, dicono, di autodifesa. Ma la giustizia iraniana non ama le sfumature e non conosce attenuanti quando la colpevole è donna. Oggi quella bambina, ormai adulta per sofferenza più che per età, aspetta la corda.
Non è una storia eccezionale, purtroppo. È solo una delle tante che non dovrebbero più esistere e invece continuano a moltiplicarsi sotto il nostro naso occidentale e distratto. In Iran, Paese che produce più poetesse che rose del deserto, si continua a sposare le bambine e a giustiziare le donne, come se la modernità avesse deciso di fermarsi sulla soglia di certi villaggi.
La legge prevede che la famiglia della vittima possa “perdonare” la colpevole dietro compenso. Nel caso di Goli si parla di dieci miliardi di toman, circa novantamila euro, una cifra impossibile per una famiglia che a stento possiede un tetto e un pezzo di pane. In pratica, la vita di una donna vale quanto un appartamento di periferia a Teheran, e l’ingiustizia diventa una partita doppia di contabilità morale e bancaria.
Il tempo stringe. Entro dicembre bisogna pagare, altrimenti il cappio farà il suo lavoro. Intanto, nei tribunali, gli avvocati aspettano, i giudici tacciono e le madri pregano. E noi, dall’altra parte del mondo, contiamo like, firme, indignazioni momentanee. Scriviamo qualche parola, firmiamo una petizione, poi chiudiamo lo schermo e andiamo a dormire tranquilli, convinti di aver fatto la nostra parte. Forse è questo il nuovo lusso dell’Occidente: poter scegliere a chi dedicare cinque minuti di compassione.
Io non mi scandalizzo facilmente, ma di fronte a certe notizie la penna si ferma da sola. Non per mancanza di parole, Dio sa che ne ho troppe, ma per vergogna. Perché in fondo Goli non è una storia iraniana. È una storia universale, una storia che parla di tutte le donne vendute, abusate, dimenticate. E l’umanità, si sa, è un’invenzione che spesso dimentichiamo di praticare, preferendo l’ipocrisia delle buone intenzioni alla fatica del cambiamento vero.
Quando una bambina viene venduta, picchiata e poi condannata a morte per aver reagito, non è solo colpevole l’uomo che la picchiava, né il giudice che la condanna. Lo siamo anche noi, che continuiamo a leggere, scuotere il capo e voltare pagina. Lo siamo ogni volta che lasciamo che la disperazione di qualcun altro diventi solo una notizia di cronaca. E così Goli resta lì, prigioniera di un destino scritto da altri, in attesa che qualcuno, finalmente, le restituisca ciò che le è stato tolto: non la libertà, ma la dignità di essere viva.
[Foto in evidenza: archivio]