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La crisi di Israele è anche quella dell’ebraismo mondiale: così si oppongono modernità e religione

La crisi d'identità dell'ebraismo mondiale, diviso tra laicità e religione, modernità e tradizione, come emerge nelle recenti pubblicazioni su Israele
La crisi di Israele è anche quella dell’ebraismo mondiale: così si oppongono modernità e religione
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Sono state pubblicate recentemente molte analisi politiche su Israele, che mettono in luce una situazione di crisi interna a quello stato ma che coinvolge anche gli ebrei della diaspora; per citarne solo alcune: Il suicidio di Israele di Anna Foa; Fondato sulla sabbia di Anna Momigliano, La fine di Israele di Ilan Pappé. Emerge da queste analisi una crisi che pur assumendo i suoi contorni più netti in Israele è una crisi dell’ebraismo mondiale, che a ben guardare data da oltre un secolo, e che attraversa tanto il campo sionista quanto quello antisionista. Per semplificare i termini, e sapendo che nessuna semplificazione può rappresentare compiutamente una situazione complessa, la crisi oppone modernità e religione.

I primi sionisti erano in maggioranza laici; prendevano il loro essere ebrei come un dato acquisito e vagheggiavano uno stato ebraico e laico. Ben Gurion, che era un laico, trovatosi alla guida del neonato stato degli ebrei, ebbe il problema di definire in termini legali chi fosse ebreo. Sebbene i sionisti fossero certi della loro identità di gruppo, il problema di definirsi non era stato posto in termini giuridicamente utilizzabili. Ben Gurion scrisse allora (nel 1958) a 50 “saggi”: rabbini, ma anche persone di cultura e professionisti, chiedendo loro una definizione di “ebreo”. Le 50 risposte sono raccolte nel libro Chi è ebreo? di Eliezer Ben Rafael e in maggiore o minor misura si rifanno tutte alla tradizione religiosa, spesso citando autori vecchi di quindici secoli o più.

La crisi dell’identità ebraica era in atto da tempo ma Ben Gurion con la sua richiesta la rese esplicita: non esiste e non può esistere un ebraismo laico; ciascun ebreo vive dentro di sé questa contraddizione e la porta in ogni confronto con gli altri membri del suo gruppo. Ilan Pappé riferisce a questa dicotomia con la metafora dei due stati di Israele: lo stato laico di Tel Aviv e lo stato religioso ortodosso di Gerusalemme.

Per gli ebrei laici, che vorrebbero un Israele laico e moderno, accolto a pieno titolo tra gli stati moderni, anziché posto sul banco degli imputati della Corte Internazionale di Giustizia e guidato da un premier su cui pende un mandato di arresto internazionale, il dramma è che uno stato laico non può essere ebreo, perché la definizione di ebreo è religiosa, come Ben Gurion dovette riconoscere settant’anni fa.

Per gli ebrei religiosi il dramma è che la loro religione si oppone alla modernità, al diritto internazionale e all’adesione alle organizzazioni sovranazionali. Ad esempio, nel bel libro Ebrei in guerra, il rabbino capo della comunità ebraica romana spiega a Gad Lerner le sue perplessità sull’eventuale adesione di Israele all’Unione Europea in questi termini: “Una serie di tutele e garanzie giuridiche, culturali e religiose che lo Stato ebraico può dare ai suoi cittadini ebrei … non sarebbero più certe in un sistema giuridico sovranazionale, o almeno dovrebbero essere messe sistematicamente in discussione. Pensa solo al sabato, alla circoncisione, alla macellazione rituale, esposti al capriccio dei parlamenti europei”.

L’autore che con la massima intensità e lucidità ha vissuto e spiegato questa crisi, che appartiene tanto al gruppo nel suo insieme quanto a ciascuno dei suoi membri, è Israel Shahak, scomparso nel 2001, i cui libri Jewish history, jewish religion e Jewish fundamentalism in Israel rimangono i documenti più drammatici della lacerazione morale vissuta dagli ebrei di oggi.

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