Cinque secondi ed almeno due/tre film in uno. Il sedicesimo lungometraggio di Paolo Virzì – in prima assoluta nella sezione Grand Public della Festa di Roma 2025 – ne rispecchia plasticamente le esigenze trasformative in termini di tonalità e drammaturgie di genere. In pratica da quando per Virzì e il suo team di scrittura (qui ci sono Carlo Virzì e il sodale Francesco Bruni) è iniziata l’avventura di una sorta di sofisticazione (da Il capitale umano, per intenderci) sul registro della commedia popolare degli albori (Ovosodo, Ferie d’agosto, Caterina va in città) sono seguiti anche una serie di più o meno velleitari tentativi di rendere i propri film qualcosa di più intellettualmente e stilisticamente complesso. Solo che di Pazza gioia ne passa uno ogni tanto e fanno capolino soprattutto prototipi sghembi alla Siccità.
Per Cinque secondi l’analisi si fa peraltro più complessa. Perché Virzì gira almeno due film e prova a coniugarli, a unire i due puntini, come se fossero i due lati della stessa medaglia. Poi per carità magari lo sono, però bisogna metterci molta colla. Da un lato quindi troviamo tutti i festoni rimasti dalla satira sociale degli inizi con il bordone narrativo che apre il film dove il quasi vecchio abbiente burbero Adriano (Valerio Mastandrea) isolatosi in un casolare (pardon: stalle ristrutturate) di collina (c’è pure una neve peregrina per segnare il tempo che non regge sul breve diventando pioggia battente) viene infastidito dai giovanastri extinction rebellion tutti laureati e brillanti che occupano, chitarre, orecchini, fluidità varie, la villa nobiliare diroccata rivitalizzando senza chimica la vigna lasciata andare (si chiama vino naturale, nel settore). Ebbene Adriano è dapprima radicalmente scocciato da questi rompiscatole ma appena vede che la leader degli occupanti (Galatea Bellugi) compie fatiche erculee tra i filari ma è incinta si scioglie come la neve dell’inizio e si prostra per aiutarla. A quel punto è chiaro che Adriano nasconde un segreto che l’ha portato all’improvviso isolamento. E qui arriva il secondo film presente in Cinque secondi. Adriano è un avvocato di successo, ma attento alle cause dei poveracci, che è stato accusato di omicidio colposo per la morte accidentale della figlia con una patologia neurologica irreversibile.
L’altro puntino di Cinque secondi, quello da coniugare all’allure Baci e abbracci (senza struzzi) del blocco collina campagna, è un intenso potente e commovente testo drammatico con Adriano intento a ricucire il rapporto intimo con l’altro figlio, presente alla tragedia della morte della sorella, e a presentarsi in tribunale per un court room drama di tutto rispetto. Una nuance modello cinema medio alla francese (Valeria Bruni Tedeschi ne garantisce grinta e raffinatezza a riguardo) dove in alcuni istanti Mastandrea sembra uno stropicciato Daniel Auteuil che fa l’avvocato (La misura del dubbio, per dire). Cinque secondi ha così due anime: quella un po’ appannata e rabbuiata, dove il comico graffiante si trasforma in graffietto, degli occupanti; e quella più ispirata, solida, coinvolgente, sulle tracce di una sentita illustrazione della responsabilità paterna e sul ragionamento sottile attorno ad una riflessione sulla persistenza inconscia del fine vita. Il risultato generale, in fondo, non è malvagio. La cucitura finale attorno al parto, dopo il drammone in tribunale e un arrivederci sotto la pioggia da brividi, è sfumata con grazia (canina), scarso rumore di fondo, assenza di carinerie. Mastandrea funziona meglio, anzi molto bene, nella rude determinazione spesso silenziosa dell’avvocato ferito più che in quella dell’impacciato babbo sostitutivo. In sala dal 30 ottobre. Il giudice è Giancarlo De Cataldo.