Cinema

Tre Ciotole – La regista Isabel Coixet frantuma il libro di Michela Murgia e firma un film tragicamente intimo

Grazie ad una regia sicura e poco maramaldeggiante tra le trappole del melò, la regista dirige con classe e fermezza un manipolo di attori italianissimi che giocano, riuscendoci ad essere internazionali

di Davide Turrini
Tre Ciotole – La regista Isabel Coixet frantuma il libro di Michela Murgia e firma un film tragicamente intimo

Prendi il romanzo di Michela Murgia, rivoltalo come un calzino e viene fuori un buon film. Tragico, per carità. Una di quelle opere terribilmente tragiche sulla morte incombente, annunciata, preparata. Eppure Tre Ciotole della 65enne regista spagnola Isabel Coixet – la produzione è italo/spagnola – è una di quelle curiose inattese sorprese intimiste in un mare magnum di drammaturgie da tinello tutte uguali. Il tinello, comunque, c’è. Ed è quello dove finiscono le tre ciotole che Marta (Alba Rohrwacher), un’introversa insegnante di ginnastica, e Antonio (Elio Germano), un ruvido barbuto chef in rampa di lancio con recensioni online sempre migliori, guadagnano con i punti della spesa alla cassa del supermercato: lei le sbircia con interesse; lui le guarda con sdegno. Preludio apparentemente banale di un litigio e conseguente sospensione della loro relazione sentimentale che avverrà su decisione di lui.

A quel punto, durante grigie giornate in una Roma invernale, per certi versi ripulita dal romanesco e da romanità dozzinali, strattonata tra le confessioni personali di una sorella egocentrica (Silvia D’Amico), il corteggiamento cortese di un collega di filosofia goffo e stralunato (Francesco Carril), e la scomparsa di Antonio, Marta inizierà a non avere più fame e vomitare l’impossibile fino a quando giunge un responso medico senza scampo: neoplasia al quarto stadio con metastasi diffuse. Unico possibile rimedio: tentare di non far accelerare la malattia mortale con pillole sperimentali.

Coixet scioglie ogni possibile realismo traumatico sanitario in una sorta di muliebre, filosofico, finanche favolistico apologo sull’isolamento esistenziale e sull’attesa della morte. Un cupio dissolvi dove si adoperano gli stilemi della tragedia senza esasperarli, decantandone in controluce abissi e opportunità, in una stasi neutrale che non si carica di dettagli di trucco e parrucco macabri e/o funerei ma di partiture addirittura romantiche. C’è qualcosa di magicamente leggiadro e centrifugo nell’allontanare il pensiero del male, e allo stesso tempo di profondamente radicato e centripeto verso quel male inarrestabile, che ammanta una tessitura d’interni, angoli esterni e primi piani, di improvvisi lampi in campo lungo (Antonio che si aggrappa a Marta sull’isola Tiberina), di stralci fotografici ghirriani su muri e finestre.

“Bisogna smettere di occuparsi di cose stupide”, decanta Marta nel percorso che la tiene aggrappata ad un senso possibile per la vita che si spegne. E attorno a lei si ricompone un universo di socialmente emarginate (le due alunne che si tagliano), di chi è identitariamente confuso (Galatea Bellugi), di familiari pentiti e onesti amanti. Per ottenere le Tre ciotole di Coixet, però, serve smartellare e frantumare le Tre Ciotole della Murgia. Mai romanzo fu meno presente in un film. Facciamo anzi che Coixet, che con Enrico Audenino sceneggia, trae dal libro un generico spunto di partenza (la malattia della protagonista) cancellandone la struttura polifonica e soprattutto silenziando ira e rabbia con le quali la scrittrice sarda aveva colorato gli stati d’animo della protagonista, ribaltando nel silenzio e nella remissività di Marta l’appeal di un personaggio straziato ma mai del tutto straziante.

Grazie ad una regia sicura e poco maramaldeggiante tra le trappole del melò, Coixet dirige con classe e fermezza un manipolo di attori italianissimi che giocano, riuscendoci ad essere internazionali (pensate al disastro, in questo senso, del cast di Tre piani di Moretti): Rohrwacher al suo meglio, Germano sfuma e svapora gradualmente fino a rimanere un soffio di inconcludente narcisismo maschile (attendete i titoli di coda); D’Amico matura con l’andare dei minuti come fossimo in un film di Cassavetes; ma soprattutto Carril (nuance spagnoleggiante ma non si vede/sente) dona al suo innamorato professore di filosofia un’imbranata poetica purezza che lascia il segno. Notarella a margine, ma non troppo: sempre da regista non italiana, Coixet seleziona e utilizza brani musicali (anche italiani) senza mai eccedere in gratuiti didascalismi e alzate improvvise di volume. E all’improvviso, quando non c’entra nulla, mentre sembra scapparci il climax, appare pure un cagnetto – è quello della regista? – che passa davanti alla macchina da presa. La star inglese Sarita Choudhury è la dottoressa premurosa e affettuosa che prova a curare Marta.

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