In una settimana della moda milanese che, a parte poche eccezioni, sembra porsi distante e non curante della situazione politica e sociale contemporanea, gli eventi si susseguono senza sosta, tra gli attesissimi debutti, da Bellotti per Jil Sander a Demna per Gucci, e il ricordo di Giorgio Armani. In questo clima parecchio distopico, la Milano Fashion Week rimane uno strumento essenziale per i brand giovani ed emergenti alla ricerca di una cassa di risonanza per il lavoro che, spesso, portano avanti già da anni. Lorenzo Seghezzi, designer prima, fondatore del brand omonimo dopo, trova in questo contesto la possibilità di debuttare con uno show ufficiale che intitola Interludio. Abbiamo intervistato il designer alcuni giorni prima dello show, questa è la sua storia.
1. Cosa, nella tua storia personale, ha influito nella crescita di Lorenzo Seghezzi, non solo come designer?
Sono sempre stato una persona estremamente creativa: passavo le giornate a disegnare, costruire, ritagliare e ricomporre oggetti, immaginando storie ispirate dai libri che leggevo e dando vita a personaggi e creature. Da bambino e fino all’adolescenza ho faticato molto ad aggregarmi e a sentirmi a mio agio nei gruppi, perché mi era chiaro fin da subito di essere diverso. La mia queerness era evidente, difficile da nascondere e spesso difficile da accettare per gli altri.
In famiglia, però, è sempre stata accolta con naturalezza, permettendomi di esprimere al massimo la mia creatività. Questo contrasto tra il sostegno delle persone più importanti e l’astio del mondo esterno mi ha insegnato presto il valore dell’essere sé stessi e del seguire le proprie ambizioni. Ho sempre saputo che il mio percorso sarebbe stato in ambito creativo, ed eccomi qui.
2. Da dove nasce il tuo desiderio di lavorare nel mondo della moda?
Durante l’adolescenza, quando ho iniziato a esprimere liberamente la mia queerness, i vestiti sono diventati un’armatura: mostrarmi apertamente per ciò che ero mi rendeva, paradossalmente, più accettato. Persino le offese per strada facevano meno male. Da lì è nata la mia passione per i vestiti, prima ancora che per la moda, e il desiderio di distinguersi. Ho iniziato a cucire, dipingere e modificare abiti. Dopo cinque anni di liceo artistico ho scelto di studiare Fashion Design in NABA, restando in un contesto creativo e artistico ma specializzandomi nel campo della moda. Mi sono laureato con lode e tante ambizioni a fine 2019. Purtroppo, dopo i primi colloqui, la pandemia ha bloccato ogni possibilità lavorativa.
3. Perché hai deciso di fondare il tuo brand e quali sono state le sfide maggiori che hai dovuto superare?
Dopo mesi di lockdown, mentre vivevo ancora con i miei genitori, ho aperto uno shop online per vendere dei cappellini cuciti in quel periodo. Non pensavo minimamente di poter fondare un brand, ma il supporto del pubblico, soprattutto sui social, è stato travolgente e mi ha dato la spinta per andare avanti. Le sfide sono quotidiane, sempre nuove. La più grande, all’inizio, è trovare la forza di farsi rispettare e continuare a credere nel proprio progetto, nonostante un fashion system tossico e un mercato saturo.
4. Quali sono i valori associati al brand e come li trasmetti?
Il brand vuole essere un ponte tra le nuove generazioni – in particolare la comunità queer – e la tradizione sartoriale del made in Italy. È un punto di rottura con il binarismo di genere, le taglie standard e la produzione di massa, a favore di un approccio su ordinazione e su misura, pensato per valorizzare l’individuo.
5. L’identità è un concetto che viene molto indagato dai tuoi design e capi, attraverso riferimenti che superano definizioni di genere, classificazione dei corpi, regole societarie e di stile. Come hai definito l’estetica del tuo marchio attraverso questa prospettiva?
In uno dei momenti più difficili della mia vita, i vestiti sono diventati una vera armatura. Per questo oggi cerco di creare capi che facciano sentire chi li indossa più forte e sicuro di sé, rispettando e valorizzando il corpo e le sue necessità. L’estetica del brand è fortemente caratterizzata dalla corsetteria, che considero l’emblema di questa filosofia: un capo capace di esaltare e trasformare il corpo, a seconda dei desideri di chi lo indossa.
6. La corsetteria è un elemento centrale, da dove nasce il legame con questo capo?
Da adolescente, frequentando la nightlife milanese, ho scoperto il mondo drag e della performance, dove il corsetto era un oggetto mitico e ambito. All’epoca reperirne uno di qualità era complicato. Quando ho iniziato a studiare sartoria ho scoperto con delusione che la corsetteria non faceva parte del percorso formativo: da lì è nata una sfida personale. Durante il lockdown mi sono dedicato a studiare da autodidatta, tra libri, blog e tutorial. Oggi gli elementi della corsetteria – lacci, occhielli, stecche – sono centrali nei miei design e li declino in tutte le categorie di prodotto.
7. Perché hai scelto di debuttare durante la Milano Fashion Week?
In passato ho organizzato e partecipato a diversi eventi collettivi per mostrare il mio lavoro, ma la Fashion Week rappresenta un traguardo importante per ogni giovane brand. Sono estremamente fiero di poter finalmente debuttare a Milano.
8. Quali sono i pro e contro di partecipare a questo evento, soprattutto dal punto di vista di un giovane designer emergente?
L’unico vero contro è il rischio di perdersi tra i grandi nomi o di voler strafare oltre le proprie possibilità pur di farsi notare. Per il resto è una piattaforma talmente prestigiosa che, se sfruttata bene, porta sempre grandi soddisfazioni.
9. Interludio è la prima collezione a tuo nome portata in passerella, cosa rappresenta per te?
Un enorme traguardo, ma anche un impegno gigantesco. Per una sfilata servono diversi look, eppure a lavorarci siamo solo io e la mia assistente Miriam. Non è stato facile resistere alla stanchezza e alle difficoltà, ma ora siamo pronti a presentarla al pubblico.
10. Ce la racconti?
Interludio racconta la doppia anima del clubbing milanese: da un lato la libertà sfrenata dell’espressione, dall’altro il vuoto che può derivare quando si perde il controllo. Nasce dalla mia esperienza personale nei club queer di Milano, realtà fluida e vibrante che ha formato la mia identità.
È una lettera d’amore e d’addio alla notte, ma anche una domanda aperta su cosa viene dopo. Club come Toilet, Plastic e La Boum sono stati per me scuole di vita: lì ho trovato amore, amicizia, la mia famiglia scelta e il mio linguaggio estetico. Oggi, dieci anni dopo, vivo l’esperienza del club con emozioni contrastanti: nostalgia per la giovinezza ribelle e sensazione di prigionia in un copione che sembra relegare l’identità queer solo al buio e all’effimero. Mi chiedo se ci sia spazio per un’età adulta queer che esista anche alla luce del giorno. In una Milano che ha visto la chiusura del Plastic e lo sgombero del Leoncavallo, parlare di questi temi attraverso la moda diventa necessario: è proprio dal crollo dei templi della notte che possono nascere nuove rivoluzioni culturali.
11. Quali sono le difficoltà da affrontare oggi per un brand indipendente e giovane nel panorama della moda contemporaneo?
È molto difficile farsi prendere sul serio e inserirsi in un mercato saturo in un momento di crisi economica e culturale. Spesso i buyer spingono a realizzare capi semplici e veloci, poco autentici. L’accesso a fondi e finanziamenti non è garantito e crescere passo dopo passo, senza scorciatoie, è logorante. Soddisfacente, ma estremamente faticoso.
12. Per la scorsa SS25, la collezione Proemio si è aggiudicata il Camera Moda Fashion Trust Grant. Quanto questo, insieme ad altri premi sul panorama nazionale e internazionale, sostiene il lavoro dei giovani brand e cosa ha comportato per il marchio Lorenzo Seghezzi?
Questi sostegni sono fondamentali: motivano chi partecipa, incoraggiano chi viene selezionato e possono cambiare la vita di chi vince. Per me è stato un punto di svolta: mi ha permesso di entrare nel calendario della Fashion Week, di assumere la mia attuale assistente, di registrare il marchio.
Ma soprattutto mi ha fatto entrare in una community di designer: prima non avevo molti colleghi con cui confrontarmi, ora so che non sono solo. Nonostante la competizione, ci sosteniamo a vicenda ed è prezioso.
13. Cosa significa affidarsi all’artigianalità e al made in Italy in un momento storico in cui si percepisce una grande sofferenza sul tema?
Oggi molti grandi brand che sbandierano il made in Italy vengono smascherati per pratiche tossiche e poco trasparenti. Per questo, per una realtà piccola come la mia, essere coerente e determinata nel portare avanti un’autentica artigianalità diventa un valore e un asset potente.