Fellini? “Noioso e prevedibile”. E a Chalamet 17enne predisse un futuro da star. Parliamo, anzi parla, Luca Guadagnino. Il 54enne regista palermitano intervistato da Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera, ha ricordato diversi momenti del suo passato palermitano, la sua infanzia in Etiopia, il ricordo di bimbo di fronte “a una distesa di sabbia e due occhi azzurri” (quelli di Peter O’Toole in Lawrence d’Arabia “in uno splendido cinema costruito dai fascisti ad Addis Abeba, dove ho vissuto i primi sei anni”), la prima volta a 21 anni e mezzo (“un amore goffo”). Tanti i lampi di osservazione sul mondo contemporaneo, le considerazioni intelligenti e provocatorie, sempre molto leziosamente colte (“Klaus Mann, il figlio di Thomas, scrive che si ama sempre lo stesso volto, e lo si cerca per tutta la vita”), Guadagnino ha ricucito alcuni momenti della sua carriera professionale a partire dall’incontro con Timothée Chalamet, poi protagonista del suo Chiamami col tuo nome. “Il film ebbe una genesi complessa. Io dovevo esserne solo il produttore. Incontrai Timothée grazie al suo agente quando aveva diciassette anni, in un ristorante di New York, e mi parve la quintessenza del ragazzo di New York”, ha spiegato il regista. “Era veloce, smagato, curioso, ambizioso. Ma il film non si riusciva a fare, il regista italiano che avevamo individuato si chiamò fuori, e alla fine la regia dovetti farla io. Tornai da Timothée dopo due anni, era ancora perfetto per la parte di Elio. E nei primi giorni di lavorazione accadde una cosa strana. Timothée stava girando la scena in cui il protagonista allo specchio si rade i pochi peli che ha. E aveva un’espressione così perfetta, precisa, niente recitazione tutta essenza, che gli dissi: tu diventerai una star, tra un anno, massimo un anno e mezzo, viaggerai in aereo privato”.
L’autore di A bigger splash è tornato sui momenti da perfetto sconosciuto quando cucinava in casa di un’affamata Laura Betti quintali di polpette tutte per lei e lì passava la meglio intellighenzia del comunismo, poi Pds e PD, italiana, come Bernardo Bertolucci, Enzo Siciliano, Ettore Scola, Francesca Archibugi. Di Fellini però un bertolucciano come Guadagnino non ha mai avuto, e continua a non avere una grande opinione. “Lo trovo noioso, prevedibile, tranne in alcuni capolavori, come La strada e Giulietta degli Spiriti, tutti rischiarati dalla presenza di Giulietta Masina: la grande artista ahimè negletta della coppia. Che illumina anche un film tardo come Ginger e Fred”. Addirittura 8 e mezzo “poteva durare un’ora in meno”: “Non voglio mancare di rispetto a un regista come Fellini, che ha fatto la storia del cinema. Ma un artista non dovrebbe diventare un canone. Bergman disse: “Se dovessi fare un film alla Bergman, sarei finito”. Ecco, Fellini ha fatto film felliniani”.
Non manca uno sguardo su Trump, verso il quale in fondo il regista palermitano non sembra essere così imbestialito come molti maitre a penser italiani: “Già nel 2016 lo dicevo ai miei amici liberal, colti, cosmopoliti: Trump vincerà. Loro sorridevano: impossibile. E Hillary definiva i suoi elettori “deplorevoli”. Ma Trump è stato visto dai blue collars, dalla classe operaia, come l’ultima occasione per essere visti, e ascoltati. Quando viene messo in atto questo disprezzo da parte delle élite, il popolo guarda alla sirena della risposta che gli arriva da coloro che sembrano riconoscergli la sua esistenza”. Guadagnino ha aggiunto che “il paradosso è che Trump è un miliardario egotico e la sua classe dirigente è composta da élite di destra e dai padroni della Silicon Valley, che prima andavano a braccetto con i democratici. Per me, che sono di estrema sinistra, ci vorrebbe una ricodificazione della sinistra-sinistra per opporsi a tutto questo”.
Il “sinistra-sinistra” viene spiegato riferendosi ad una sinistra “alla Ken Loach, che non si compromette con le ragioni economiche delle corporation”. Quando Cazzullo gli segnala che il produttore del suo nuovo film è Amazon, il regista risponde: “Certo. Ma nel fare i miei film mi lasciano totale libertà produttiva e creativa. Ciò non toglie che credo nella supremazia dello Stato sui poteri economici e della democrazia rappresentativa sul potere delle lobby economiche”. E su After the hunt, l’ultimo film girato con Julia Roberts (“è diventata una mia amica intima”) e presentato all’ultimo festival di Venezia Guadagnino e incentrato sia sulle tematiche del #MeToo che sulla cultura woke. “I giovani tendono a pensare che riconoscere la differenza e darle un nome sia sbagliato. Che l’altro sia necessariamente un elemento positivo. In realtà, l’altro va riconosciuto nella sua alterità, come dice Slavoj Zizek parafrasando Martin Lutero. Non possiamo accettare nell’altro solo quello che ci consola, che consideriamo assimilabile. Finito il Novecento, superata l’idea postmoderna secondo cui la verità non esiste, sembra a volte di trovarsi davanti all’imposizione della verità soggettiva, spesso affidata ai social”.