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Milano in lotta perpetua con le piene del Seveso: una storia che viene da lontano

La lunga storia del fiume Seveso tra progetti non realizzati e soluzioni mai attuate che continua a provocare danni a Milano
Milano in lotta perpetua con le piene del Seveso: una storia che viene da lontano
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Il lupo milanese incolpa l’agnello brianzolo da molti secoli, invertendo le parti della favola di Esopo: “spinti dalla sete, un lupo e un agnello sono giunti allo stesso rivo. Il lupo era a monte, in alto; l’agnello a valle, assai più in basso”. In età contemporanea, un solo governo aveva capito la questione apparentemente banale delle intemperanze del suo fiume: la colpa delle fastidiose e frequenti inondazioni cittadine non è l’avido consumo di suolo brianzolo, quanto la presunzione metropolitana. Tutti gli altri governi, locali e regionali, hanno preferito mascherarsi da lupo, ribaltando a monte le responsabilità di valle; e imponendo costosissime e impattanti casse di espansione la cui efficacia è mediocre, visto quanto successo a Tokyo il 10 luglio 2025.

Nel passato remoto, solo il governo austriaco riuscì a capire il Seveso. Nel Settecento infuriava la polemica tra chi voleva invasare le piene a monte della città e chi accettava la triste realtà: un fiume va regimato con generosità se vogliamo che attraversi la città senza fare danni. Sosteneva questa tesi uno dei maggiori esperti di idraulica dell’epoca, Giovanni Antonio Lecchi, gesuita milanese, idrografo imperiale al servizio di Maria Teresa d’Austria. L’architetto-ingegnere camerale, Dionigi Maria Ferrari, sosteneva invece la prima soluzione, scaricare a monte le responsabilità di valle. Seguendo la lezione del Lecchi, gli austriaci prolungarono il Seveso a valle fin quasi a Melegnano, battezzandolo Redefossi. Il costo dell’opera era elevato (un milione di lire milanesi) ma l’imperatore Giuseppe II, figlio di Maria Teresa, si affidò al realismo: la cifra era comunque inferiore al costo di una delle ricorrenti esondazioni. Dopo meticolose indagini tecniche, i lavori iniziarono nel 1783 e furono terminati in tre anni.

In età contemporanea, un solo protagonista delle confraternite amministrative in sella dal Dopoguerra a oggi capì che cosa fosse necessario. Fu il governo cittadino capace di mettere fine alla sceneggiata delle acque reflue milanesi: fino a tutto il Novecento, le fogne milanesi scaricavano i liquami tal quali nei corsi d’acqua, senza depurazione alcuna. Una vergogna italiana ed europea. “Quando Albertini era sindaco l’allora assessore all’Ambiente Domenico Zampaglione, ingegnere idraulico, aveva presentato il progetto di un canale scolmatore sotterraneo che avrebbe portato le acque del Seveso da Niguarda a Ponte Lambro. Era l’unica soluzione possibile al problema” (Il Giornale, 1/11/2023). Parola di un politico dalla lunga esperienza amministrativa, De Corato.

Non era la soluzione definitiva, perché sono necessari anche interventi di sistemazione idraulica a monte di Milano, possibilmente d’ingegneria naturalistica, ma si trattava della soluzione più ragionevole, efficace e, soprattutto, prioritaria. Non era una novità. Anche il Comitato Coordinatore delle Acque era giunto alla stessa conclusione nel 1940. A differenza del piano d’anteguerra, il progetto Zampaglione era esecutivo, pronto per il cantiere. E la giunta Albertini aveva già trovato modo di finanziarlo, mettendolo a bilancio.

La memoria del parlamentare milanese non è invece perfetta quando afferma che “si trattava di un’opera molto costosa”. Il costo di un’opera pubblica va confrontato con quello delle altre opere pubbliche che si mettono in cantiere, così come il beneficio. Il progetto dello scolmatore, già cantierabile, costava attorno a 70 milioni di euro, meno dei danni di una sola botta alluvionale, quella del 18 settembre 2010. E i soli allagamenti di Halloween del 2023 hanno causato 11 milioni di danni.

La capitale finanziaria del paese balbetta, ha bisogno del pallottoliere: basta sommare i danni dal 1945 in poi per capire l’ABC della galleria (Analisi Benefici-Costi). Nessuno si è mai permesso di confrontare il costo della galleria con quanto la comunità meneghina spende per collegare le nuove, molteplici, invadenti aree commerciali costruite ovunque nel Milanesato, senza contare le torri spuntate ovunque in città come funghetti velenosi. Senza dimenticare che la galleria di Zampaglione aveva anche una funzione drenante, poiché poteva limitare la inesorabile risalita della falda cittadina, il cui controllo via pompaggio costa un bel po’ di quattrini ai contribuenti milanesi.

Un volenteroso che voglia approfondire la vicenda idraulica del Seveso, più farsa che dramma, può leggere un libro che pubblicai qualche anno fa. In Bombe d’acqua, alluvioni d’Italia dall’unità al terzo millennio (Marsilio, 2017) la parola Seveso è citata 40 volte. Il Seveso non è il “fiumiciattolo” descritto dai media, locali e nazionali; e come tale fatto percepire a milanesi e italiani. Il suo bacino idrografico, di forma particolare perché stretto e allungato, copre circa 200 chilometri quadrati all’ingresso in Milano. In concreto, il Seveso è grande poco meno del Bisenzio fiorentino, il doppio del Bisagno genovese, entrambi noti alle cronache.

La copertura cittadina del Seveso non porta più di 40 metri cubi al secondo. Il fiume esonderebbe in centro se non fosse costretto a farlo prima, a monte, per ragioni più o meno ovvie. A Genova, la famigerata copertura del Bisagno, causa di danni e lutti dal 1945 in poi, era capace di portare quasi 600 metri cubi al secondo. Non erano mai bastati, nonostante che il progetto fosse stato siglato da una firma illustre: l’idraulico fascista ante e post litteram Gaudenzio Fantoli, Rettore del Politecnico di Milano. Tutti sappiamo che i nubifragi genovesi e fiorentini sono più intensi di quelli brianzoli, non tanto però da giustificare questa folle proporzione, uno a quindici.

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