“Io, madre single in Olanda, ho fatto carriera senza rinunciare a mio figlio. In Italia se sei mamma ti spingono a rallentare”
Cercava un’avventura, ha trovato una nuova vita per lei e suo figlio. Quando Michela Toffali si è trasferita ad Amsterdam nel 2014, non stava fuggendo dall’Italia. Voleva solo vivere un’esperienza all’estero. Insieme al padre di Meltemi, che allora aveva 3 anni, aveva programmato di vivere in Olanda per un paio d’anni e poi tornare. Non è andata così: “Qui ho capito che avrei avuto una carriera molto più veloce, e senza dover rinunciare alla serenità e al tempo con mio figlio”. Eppure non esclude di tornare nella sua Verona, prima o poi: “Quando Meltemi sarà maggiorenne, forse tornerò. L’Italia ha un fascino unico. Ma non accetterei mai uno stipendio inferiore”.
Michela è direttrice marketing e comunicazione per Europa, Medio Oriente e Africa di un’azienda americana che produce articoli medicali monouso. Gestisce un team di 25 persone, in un’azienda miliardaria che conta circa 40mila dipendenti: “Facevo lo stesso lavoro anche in Veneto, ma in aziende più piccole. Qui ho avuto più possibilità di crescita. A fare la differenza è il mercato del lavoro: è molto attivo, ed è del tutto normale cambiare spesso”. E a ogni età. Sono passati dieci anni da quando si è trasferita, e in questo lasso di tempo Michela si è trasformata più volte: “Forse è stata fortuna, forse è stata bravura. Forse entrambe le cose. In ogni caso qui ho fatto dei salti carpiati che probabilmente altrove non sarei riuscita a fare”.
E un balzo dopo l’altro è cresciuto anche Meltemi. Oggi ha quasi 14 anni, si sente italiano, tifa Roma come il papà. Parla italiano, inglese, olandese. E sa di poter andare ovunque vorrà: “Quando parla del suo futuro, considera il mondo intero”. Per ora, però, il suo universo è Amsterdam: “Io e suo papà siamo separati, ma abitiamo a solo un chilometro di distanza. Lui esce da solo, va a scuola in bici, e può andare avanti e indietro tra le nostre case liberamente”. Una libertà che l’ha reso sia italiano, sia olandese. Figlio di tutti e due i luoghi, ma diverso da entrambi. “Esce con la pioggia, si butta nel fango, fa merenda con i cetrioli crudi come i suoi amici: a morsi, senza pelarli! E ha una mentalità molto aperta”. Anche grazie al contesto internazionale che si respira a scuola.
Meltemi frequenta la scuola pubblica, completamente gratuita e bilingue. Prima delle superiori, c’è un unico ciclo di istruzione di base. Alla fine di questo percorso, un esame indirizza gli alunni con un ‘advice’ vincolante. “La linea è più netta, e forse questo permette di avere persone che fanno tutte le professioni”. Le superiori sono distinte in tre tipologie: la VMBO, una scuola professionale di 4 anni, la HAVO, un quinquennio più simile agli istituti tecnici, e la VWO, un percorso di 6 anni, necessario per andare poi all’Università (WO), diviso in due cicli di 3 anni. Esistono tre tipi di VWO: athenaeum (senza greco e latino), gymnasium (con greco e latino obbligatori) e lyceum (con greco e latino opzionali). La scelta non spetta alle famiglie, ma alla scuola.
La scuola, secondo Michela, è meno stressante, più pratica e molto incentrata sul gioco. Oltre ai docenti delle singole materie, c’è il “mentor”: “Uno dei loro insegnanti è anche una figura di riferimento, con cui ogni settimana l’alunno ha un colloquio per confrontarsi sul proprio andamento scolastico”. Perché il rapporto di fiducia privilegiato è quello tra professori e alunni, e le famiglie sono meno coinvolte: “Qui l’idea è che i ragazzini debbano un po’ arrangiarsi. Noi genitori abbiamo un solo colloquio all’anno, in una materia a scelta e solo se ci sono difficoltà: dieci minuti e via, al resto ci pensano loro”. Così i ragazzi sono più autonomi, e i genitori più liberi. Soprattutto le madri. Le donne che hanno figli, infatti, secondo Michela sono meno discriminate: “In Italia quando dici che hai un bambino, ti chiedono quanti anni abbia, e ti spingono a rallentare. La voglia di fare carriera è stigmatizzata”. Anche durante i colloqui, nonostante chiedere queste informazioni sia illegale: “È successo che mi chiedessero se avessi o volessi figli. Nessuno ha poi ammesso fosse quello il problema, non te lo dicono in faccia, però insomma sai di aver perso l’occasione per quel motivo”.
Eppure, secondo Michela, l’Italia ha ancora tanto da offrirle. E come suo figlio, è fiera della propria identità: “L’ho capito guardandoci da fuori: all’estero ci stimano molto, sanno quanto impegno mettiamo nel lavoro e riconoscono la nostra etica. Gli italiani vanno avanti come treni, ed è evidente”. Anche per questo forse tornerà. “L’estero mi ha dato le soddisfazioni professionali che cercavo, e con la stabilità economica che ho raggiunto voglio tornare e investire sul mio futuro in Italia”. Per ritrovare il territorio, la cultura e l’arte del suo Paese. E le tradizioni della sua zona: “Mi manca il risotto al Tastasal”, ammette ridendo. “Tra qualche anno lo mangerò ogni volta che voglio”.
Sei una italiana o un italiano che ha deciso di andare all’estero per lavoro o per cercare una migliore qualità di vita? Se vuoi segnalaci la tua storia a fattocervelli@gmail.com