Questa estate il video in cui al culmine della felicità elogiava il digiuno è diventato virale. Raz Degan a Il Corriere della Sera ha spiegato: “Il giorno dopo mi sono ritrovato in tv, messo a confronto con quattro medici contrari. Eppure all’estero il digiuno è sempre più sostenuto. Esiste oggi un’ampia letteratura scientifica sui suoi benefici, e sempre più nutrizionisti lo considerano uno strumento di prevenzione e riequilibrio. In tantissimi mi hanno scritto: si erano incuriositi e volevano provarlo”. Sulle sue spalle anche 18 giorni di digiuno consecutivo al termine della lavorazione del documentario “The Last Shaman“, prodotto da Leonardo DiCaprio nel 2016: “Arrivavo da 5 anni di lavoro totalizzante, è stato il mio modo per purificarmi e ritrovare le energie”.
Ad agosto è inizia la sfida dei digiuni collettivi da 48 ore: “Si sono iscritti quasi in tremila, oltre 200 hanno partecipato agli incontri live quotidiani. Per scongiurare questo rischio ci hanno supportato diversi specialisti: il medico Salvatore Simeone, autore del Digiuno felice, lo psicologo Elton Kazanxhi, il cardiologo Paolo Diego L’Angiocola, e il ricercatore indipendente Fabio Marchesi. I live erano uno spazio per fare domande a me e al mio team e condividere le esperienze. Il digiuno è diventato così una esperienza online di crescita e benessere”.
E non finirà qui: “A settembre ne organizzerò un altro: la forza del gruppo è potentissima. L’idea mi è venuta dopo aver postato un video a giugno, dopo un digiuno di 10 giorni”.
Dal 2001 Raz Degan vive in Valle d’Itria: “Mi sento molto libero, cammino scalzo: è il mio modo per restare con i piedi per terra. Non ho mai smesso di essere me stesso: a gennaio mi è capitato di volare in India per il Kumbh Mela, riprendendo le morti della calca, e poi dopo poche ore salire su un aereo per andare su un red carpet”.
I ricordi sul set sono ancora vivi quando ha lavorato nel 1999 a “Titus” con Anthony Hopkins e Jessica Lange: “Straordinari. Lui arrivava dalla scuola inglese: scherzava con tutti, all’epoca fumava, e poi si trasformava nel secondo in cui doveva andare in scena. Lei, invece, era tutta Metodo Stanislavskij: doveva vivere la parte, soffrire, come se una figlia le fosse morta sul serio”.