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Dobbiamo accettare che su certi delitti rimarremo sempre ignoranti

Arrestare il colpevole ci offre un sollievo fugace. Dentro il nostro inconscio aleggiano domande esistenziali: potrebbe capitare anche a me? Sono un discendente di Caino?
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Dover ammettere, prima di tutto a se stessi, di ignorare qualcosa è doloroso in ogni campo della nostra esistenza. Capisco quindi la sofferenza degli inquirenti dei casi di omicidio che imperversano sulle cronache dei nostri giornali e nei talk televisivi. Costoro reduci da centinaia di libri o telefilm polizieschi (Sherlock Holmes, Poirot, Montalbano per non parlare dei vari CSI e NCIS) soffrono se non riescono a trovare il colpevole che nei racconti immancabilmente confessa o è schiacciato da innumerevoli prove.

L’opinione pubblica “vuole” a tutti i costi un colpevole, pretende di sapere perché solo attraverso la delimitazione dell’area di responsabilità si sentirà rassicurata. Accettare l’ipotesi che il colpevole la faccia franca e non venga smascherato è doloroso per ognuno di noi. Vogliamo capirci qualcosa e se non ci sono elementi sufficienti elaboriamo una nostra, più o meno stravagante, teoria. C’è sotto qualcosa! I poteri deviati, quelli forti, organizzazioni più o meno segrete. Scoprire banalmente che in tanti casi, per furbizia del colpevole, sciatteria degli inquirenti o casualità, non si arriverà a far uscire un ragno dal buco va contro la nostra propensione a sentirci intelligenti e capaci di comprendere il mondo.

Non mi sono mai interessato alle ricostruzioni o ai dibattiti sui principali delitti di cronaca perché ritengo che, inevitabilmente, vi siano manipolazioni giornalistiche per fare audience e spettacolarizzare gli eventi. Nelle ultime settimane non sono però riuscito ad evitare la lettura di fatti di cronaca giudiziaria che purtroppo imperversano sui giornali e nelle televisioni.

Mi pare indubbio che vi siano diversi aspetti veramente sgradevoli. Il primo è la costante violazione del segreto istruttorio con la messa alla berlina di questo o quell’imputato. Si vuole istituire un tribunale mediatico che in modo sommario definisca la colpevolezza per utilizzare la pressione dell’opinione pubblica sul vero tribunale. Mi pare abbastanza chiaro che divergenze, legittime, di opinione fra inquirenti tendano a deflagrare in una lotta per avere maggiore visibilità e affermare chi sia il più bravo. Insomma quello che, come Sherlock Holmes, è più intelligente e risolverà il caso con una mossa astuta utilizzando indizi che le persone normali non avevano valorizzato. Emerge l’ipotesi inquietante che se qualcuno entra in un “teorema accusatorio” diventa un imputato da demolire come essere umano trovando nella sua vita tutte le brutture possibili. La preoccupazione che prove a discolpa vengano o sottovalutate o addirittura omesse perché il teorema accusatorio “deve” essere solido e gli inquirenti sono oramai innamorati della loro teoria fa venire i brividi.

Vorrei spendere queste righe per elogiare la sobrietà nel processo inquirente con l’accettazione, alla fine del percorso, della possibilità di rimanere ignoranti sul colpevole o sulle cause. Non sempre potremo avere delle certezze, non necessariamente dovremo dare in pasto all’opinione pubblica un colpevole e un movente.

Mi permetto inoltre di aggiungere come psichiatra che rimarremo sempre e costantemente ignoranti rispetto a un delitto. Anche quando il colpevole confessa, ci sono testimoni oculari e prove inoppugnabili rimane un’area di mistero. Cosa ha portato un essere umano a compiere quel delitto? Ci sono moventi passionali o per denaro ma se si grattasse sotto la superficie emergerebbe che non sono sufficienti. Cosa realmente si è innescato nella mente di quella persona che ha portato a commettere quel reato? Esperienze infantili, sofferenze subite che improvvisamente fanno riemergere rabbie represse, auto distruttività, bisogno di espiare? Tutte ipotesi che nemmeno il colpevole, se anche volesse confessare tutto, riuscirebbe a fare emergere perché sono sepolte nell’inconscio.

D’altronde non conosciamo neppure i perché di Caino. Invidia perché Abele era migliore di lui? Rabbia perché agli occhi di Dio era il preferito? Voglia di potere per fare in modo che la sua discendenza e la sua tribù fossero più numerose? O più semplicemente paura perché riteneva che forse Abele stava progettando a sua volta di ucciderlo? Qualcuno leggendo queste ultime righe dirà: ma chi se frega delle motivazioni! L’importante è mettere in carcere il colpevole e aver tolto un delinquente dalla strada.

Non è vero. Arrestare il colpevole ci offre un sollievo fugace. Dentro il nostro inconscio aleggiano domande esistenziali: potrebbe capitare anche a me? Sono un discendente di Caino? Quale è il limite oltre il quale scatterebbe la mia incapacità ad auto controllarmi?

Queste domande ci fanno soffrire. Per rassicurarci vogliamo a tutti i costi trovare il colpevole per ogni delitto e leggiamo con avidità gialli in cui sappiamo che alla fine il responsabile sarà smascherato.

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