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Si può davvero garantire giustizia quando la verità è contaminata da opinioni e amplificata dai media?

A molti di noi ormai può sembrare normale svegliarsi la mattina e cercare notizie in rete sugli ulteriori passi in avanti della Procura: nel nostro ordinamento, non sarebbe così scontato
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Sono sempre stato del parere che per poter parlare con cognizione di causa di una vicenda giudiziaria sia imprescindibile la lettura degli atti, peraltro da chi la materia la mastica. Al contrario, qualsiasi ipotesi sbandierata sui social, in tv o su articoli di giornale diverrebbe una mera e banale opinione da tuttologi sostenuta dagli archivi della rete, da quelli di “mio cugino” e forse oggi anche dalla più attendibile (ma non infallibile) intelligenza artificiale.

Spesso gli articoli di giornale riassumono, non sempre in maniera esatta, casi di cronaca nera con il poco materiale che i bravi giornalisti riescono a raccogliere, magari nei corridori delle Procure e dei Tribunali. Ma fa eccezione il caso Garlasco, come tanti altri casi di grande impatto mediatico. Perché in questa storia, dei molti dettagli contenuti nel fascicolo di indagine veniamo tutti a conoscenza per le fughe di notizie. Conosciamo già così tante circostanze che in una indagine “ordinaria” mai avremmo l’opportunità di conoscere: il nome dell’indagato, l’impronta n. 33, quella presumibilmente attribuita all’indagato e presente sul luogo del delitto, la possibile arma del delitto, presumibilmente gettata in un corso d’acqua nel quale, dopo 18 anni, potremmo trovarci qualsiasi oggetto del quale si è disfatto qualche ignaro e incivile cittadino.

A molti di noi ormai può sembrare normale svegliarsi la mattina e cercare notizie in rete sugli ulteriori passi in avanti della Procura e delle armi in possesso della difesa per contrastarli, ma nella realtà, nel nostro ordinamento, non sarebbe così scontato. In una fase delicata come questa, quella d’indagine appunto, questi elementi dovrebbero essere conosciuti solo dai diretti interessati. Dopo 18 anni dall’omicidio di Chiara Poggi, con un condannato in via definitiva che sta scontando una pena detentiva ormai da dieci anni, tanti ma non così tanti se paragonati al “fine pena mai” dei suoi familiari, la Procura riapre un caso che in poco tempo ha diviso l’opinione pubblica e ci pone ancora una volta davanti ai rischi di un processo mediatico.

La Procura “riscrive” l’indagine, i giornalisti nei talk ne parlano, i diretti interessati si creano aspettative da una parte o dall’altra, rivivono parentesi della loro vita fatte di angoscia e traumi irreversibili. I cittadini parteggiano per l’una o per l’altra conclusione, per l’uno o per l’altro soggetto, con un susseguirsi di colpi di scena che sembrano preparati apposta per tenere costantemente alta l’attenzione del pubblico. Ricordo quando Alberto Stasi fu processato, assolto e poi condannato per l’omicidio di Chiara Poggi. Lui era per tutti l’unico colpevole ancora prima della conclusione del processo di primo grado e dell’arrivo della condanna definitiva. Lo stesso sentimento di giustizia sommaria si sposta oggi sul sospettato Andrea Sempio, indagato in concorso.

Molti anni dopo, quella che sembrava essere una certezza granitica, indipendentemente da quello che sarà il futuro esito di questa nuova indagine, ci troviamo ad affrontare l’incertezza di una nuova fase giudiziaria che ripropone un importante interrogativo su un caso che sembrava avere già una sua conclusione: siamo davvero in grado di garantire una giustizia equa quando la verità è contaminata da opinioni esterne e dall’effetto amplificato dai media?

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