Mentre nel mondo si moltiplicano i casi di algoritmi che “partoriscono” brani musicali, Romina Falconi studia sui manuali di psicologia e si confronta con psicoterapeuti prima di scrivere canzoni. D’altronde il suo “Rottincuore” è un progetto ambizioso. Nelle 13 tracce del terzo disco che la cantautrice romana ha presentato a FqMagazine non c’è spazio per l’algida perfezione dell’intelligenza artificiale: si parla di fragilità, cadute, pensieri che nessuno osa dire ad alta voce. È materiale che scotta questo. Una galleria di peccatori immortalati nel momento in cui le loro ombre “brillano” al massimo grado, e che vivono anche sul grande schermo in un “discofilm” proiettato in questi giorni in sale cinematografiche selezionate.
A 3 anni dall’annuncio è arrivata la fumata bianca per “Rottincuore”. Che cosa lo ha fatto slittare così tanto?
A un certo punto ho messo in discussione tutto, riscrivevo e continuavo ad apportare modifiche. In più ci ho messo tanto a trovare il “dream team” a livello di produzione. Quando ho scoperto che i musicisti che mi accompagnano nei live, Leonardo Caminati e Niccolò Savinelli, capivano perfettamente quello che cercavo, abbiamo riarrangiato tutto quel che era stato già fatto ma che non ci convinceva. Volevo che ogni brano avesse un suo mondo sonoro.
Hai definito i rottincuore come “anime imperfette che si raccontano senza filtri e senza assoluzioni”. Oggi è difficile mostrarsi senza maschere?
Ci stiamo abituando a nasconderci dietro una maschera, il che è più rassicurante e ogni tanto ci salva pure la vita, quindi non va demonizzata in senso assoluto. Al tempo stesso, però, siamo bombardati da una positività tossica per cui bisogna essere sempre vincenti. Il mio scopo, invece, era far brillare le ombre. La prima traccia del disco, “Rottincuore lacrimosa”, è il testamento di tutti i peccatori. Mi sono immaginata nell’aldilà con San Pietro che mi dice: “Signorina, qua abbiamo peccato!”. Sai cosa gli risponderei? “M’avete sputato voi in una situazione e mi avete dato le briciole, io ne ho fatto un capolavoro. Anzi, forse dovevo pure sbagliare di più!”.
Non sono anime che cercano il perdono.
Gran parte di loro non lo vogliono nemmeno, forse lo chiederanno una volta che avranno metabolizzato e digerito il processo. Per ora sono fotografate nel momento in cui stanno peccando, quindi sono cristallizzate in quegli “schiaffi”. Tutto quel che vogliono è essere capite. Siccome si elogia sempre il bello e il vincente, chi ha un’ombra bene in vista sta attento a esporsi per paura di essere massacrato.
L’esperienza del centro di ascolto che hai aperto qualche anno fa è stata una fonte a cui attingere per le storie di questo disco?
È stato tutto. Ciò che accomunava le persone che venivano era la consapevolezza delle proprie magagne e il fatto di sentirsi libere di raccontarmele. Nel momento in cui ho pensato a un nuovo disco mi è venuta l’idea di realizzare una galleria di gente che è consapevole di sbagliare. Nelle canzoni non ho riportato i fatti loro, ma gli stati d’animo, perché anche se siamo tutti diversi l’abisso è uguale per tutti.
Qual è lo schiaffo che ha reso te una “rottincuore”?
Riconoscere quelli che “puzzano d’amore”.
Che significa?
Sono quelli a cui non è mai mancato l’amore da piccoli, nel momento cruciale della crescita. Li vedi, sono quelli che si muovono nel mondo granitici. Nel mio caso invece la più grande croce era chiedermi: ma se neanche chi si doveva prendere cura di me mi ha voluto bene, come posso aspettarmi dal mondo una carezza? È una domanda che ancora mi ossessiona.
Pensi di non avere ancora risolto quella ferita?
Quel che un po’ me la risolve è trovare nel mondo persone che non mi sono neanche parenti ma che mi capiscono al volo e decidono di volermi bene. Piano piano la sto sanando, ma è una sensazione che resta dentro.
Da qui la canzone “Nessuno ti ama”.
Quello è il capitolo della depressione, e a me è capitato di viverla. Ogni volta che vedrò in altre persone quegli stessi occhi spenti, non potrò dimenticare come sono stata.
Quando ti è successo?
Poco prima che uscisse il singolo “La suora” (2022, ndr). Una mattina, al risveglio, improvvisamente non avevo più la forza di alzarmi. Mi sentivo come in un incantesimo, una marionetta rotta, e speravo che qualcuno muovesse bene i fili perché non capivo cosa mi stesse succedendo. La depressione è come candeggina sul cuore: ti toglie tutti i colori. Poi con la terapia ho capito che l’aveva scatenata l’avvicinamento di una persona molto potente che voleva collaborare con me e che mi aveva riattivato un vecchio trauma lavorativo con tanto di ansia da prestazione e paura di essere abbandonata di nuovo.
“La solitudine di una regina” invece è dedicata a tuo fratello che non c’è più. Che rapporto avevate?
Mi sono giurata una cosa: in ogni disco che avrei fatto gli avrei scritto una lettera simbolica per come sto invecchiando di merda senza di lui, elogiando quello che c’è stato, anche se è stato breve. Io e Alessandro eravamo in simbiosi e non me lo dimenticherò mai. Siccome so che cosa si prova, la canzone vuole essere una carezza a quelli che devono sopravvivere all’assenza. In questo caso parlo dell’intrattabilità, perché puoi avere mille motivi per gioire, ma a fine giornata ti concentri sulla cosa che ti manca di più.
L’album vive anche in un “discofilm” che hai definito “una stanza che non guarisce” e che ospita una terapia di gruppo dei vari personaggi del disco. Se non guarisce, che cosa resta alla fine della seduta?
La stanza non guarisce perché non volevo trovare una morale. A parlare sono le ombre, sebbene interpretate da esseri umani. Lo scopo è far capire che se ne hai avuta una ci sarà stato sicuramente un motivo, non puoi nasconderla e non devi per forza vergognartene. Devi imparare a guardare in faccia le tue ombre e accettarle, prenderci le misure e trovare il modo di conviverci cercando una tua felicità. Alla fine faccio un voice over nel quale dico: “Eravamo quelli che sono andati in guerra con lo scolapasta in testa al posto dell’elmetto”. La vita ci ha dato queste magagne e noi abbiamo reagito come potevamo.
Il disco si chiude con “Sono felice” e nel discofilm interpreti proprio la protagonista di questo brano. Perché hai scelto di prestare il volto a questa traccia, e di che tipo di felicità si tratta?
È una felicità in cui si vuole credere a tutti i costi, in realtà il brano è tristissimo. La protagonista ha la “sindrome di Pollyanna”, crolla il tetto e dice: “Ah che bel venticello!”. È un volersi tirare su per non farsi schiacciare dalla vita, e io spesso ho fatto così nella mia vita.