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Nell’Ai l’etica non può essere aggiunta dopo: senza ‘inner skills’ nei programmi formativi siamo fritti

Cinque anni per una diffusione totale dell'Ai contro le decine di anni che ci sono voluti per metabolizzare altre rivoluzioni tecnologiche: il nostro cervello non è pronto
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L’altro pomeriggio, al seminario AI4Well (Intelligenza artificiale per il benessere: opportunità e sfide) all’Università di Firenze, ho assistito a qualcosa che non mi aspettavo. Alberto Del Bimbo, ingegnere specialista di computer vision con esperienza internazionale, non guru new age, nel suo intervento ha detto che, con l’avvento dell’AI, senza “inner skills” nei programmi formativi siamo fritti. Annamaria Di Fabio, specialista di Sostenibilità dello sviluppo sostenibile, annuiva, mentre qualcuno in sala borbottava “ecco un altro che si converte alla meditazione”.

Ma di cosa stiamo parlando? Respirare quando ti accorgi che stai per urlare contro lo schermo? Fermarsi cinque minuti senza controllare notifiche? Guardare qualcuno negli occhi mentre parla, non sopra la sua spalla cercando la persona successiva con cui fare networking? Roba che fino a ieri avremmo liquidato come onanismo di hipster in cerca di pace interiore, e che oggi gli scienziati definiscono essenziali quanto la matematica. Il motivo? Come ha detto Annamaria Di Fabio nel suo intervento “If you don’t use it, you lose it” (Usalo o lo perdi, in parole povere): le competenze empatiche sono come i muscoli: se non le alleni regolarmente, si atrofizzano.

Quello che mi ha colpito è il timing: cinque anni per una diffusione totale dell’AI contro le decine di anni che ci sono voluti per metabolizzare altre rivoluzioni tecnologiche precedenti. Il nostro cervello non è pronto, lo shock è troppo rapido.

Durante e dopo la tavola rotonda (che ho moderato, quindi per forza sono stato attento…), è emerso un dato che mi fa ancora riflettere: quelli che stanno più vicini alla tecnologia sono i più impegnati a divulgare questi tipi di messaggi. Professioniste come la professoressa Silvia Guetta che si occupa di innovazione educativa all’Università di Firenze, o Loretta Latronico che promuove un uso etica dell’AI per conto dell’Agenzia Spaziale. Da questi dialoghi è emerso chiaro come il sole che l’etica non può essere un’aggiunta a posteriori, ma deve essere cucita dentro i sistemi da subito. Alla tavola rotonda mi ha colpito Alessandra Pistillo, esperta di formazione innovativa, quando ha detto che “dobbiamo ripartire dalle relazioni autenticamente umane” per motivare i più giovani a non cedere alle seduzioni dell’AI.

Silvio De Magistris, il coordinatore del progetto, ha chiuso con “The way out is in” – che in qualsiasi altro contesto mi avrebbe fatto alzare gli occhi al cielo, ma che lì, dopo tre ore di dati e analisi, faceva un certo effetto. Se non sviluppiamo anticorpi interiori al sovraccarico mentale, non ci salveranno altri algoritmi. Sì, proprio così.

Alla fine, uscendo dall’aula mi sono chiesto: ma davvero siamo pronti a dare alla consapevolezza lo stesso spazio che diamo ai gadget tecnologici? E soprattutto, se è vero che 5 anni sono tutto il tempo che abbiamo per adattarci, cosa faremo per i nostri studenti, che oggi imparano a programmare ma non ad attingere alle proprie risorse interiori, oserei dire, spirituali – ovvero gli unici appigli cui aggrapparsi quando siamo travolti dal caos e tutto intorno cambia vorticosamente?

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