Musica

Bladee appare al Mi Ami, il pubblico lo accoglie come un’apparizione con un misto di venerazione e curiosità: una performance concettuale e estrema

Il racconto del Day Ø della diciannovesima edizione sotto una pioggia fitta

di Youssef Taby
Bladee appare al Mi Ami, il pubblico lo accoglie come un’apparizione con un misto di venerazione e curiosità: una performance concettuale e estrema

La diciannovesima edizione del MI AMI è iniziata sotto una pioggia fitta, quasi rituale. Ma chi era lì, sotto palco, all’Idroscalo di Milano, lo racconterà come una serata da ricordare. Il Day Ø — ribattezzato dagli organizzatori come “il giorno dell’origine”, il momento in cui “il veleno prende forma” — è stato tutto tranne che un warm-up. Ha segnato piuttosto un cambio di passo: un concentrato di nuove direzioni per la musica trap e rap in Italia e non solo. Poche ore, quattro nomi, eppure la sensazione che qualcosa si sia mosso davvero.

Ad aprire la serata è stato Azael, affiancato dal producer Thrillijard, in un set che sembrava uscito da un altro tempo e un altro luogo. L’estetica è notturna, metropolitana, glitchata. I beat di Thrillijard sono taglienti e stratificati, mentre Azael canta e si contorce in mezzo al fumo, alternando parti rappate a momenti melodici sofferti. Il suo è un racconto di solitudine, alienazione e notti infinite, ma filtrato da una scrittura che non cerca il realismo crudo, quanto piuttosto l’astrazione emotiva. Brani come “l’effetto finisce”suonano come inni generazionali per chi non ha bisogno di urlare per farsi sentire. Il pubblico balla, canta e conosce le canzoni. Segno che Azel sta coltivando qualcosa di solido.

Poi sale sul palco 18K, e l’atmosfera cambia immediatamente. Se Azael porta l’introspezione, 18K arriva con la realtà nuda e cruda. I suoi brani sono cemento e asfalto, pieni di rabbia ma anche di lucidità. È un trapper atipico: il suo flow è diretto, poco diluito, e si muove tra le lingue e le inflessioni con una naturalezza che racconta tanto le sue origini quanto le sue ambizioni globali. La base è street, ma la scrittura è personale: 18K parla di strada, sì, ma anche di scelte, pressioni, e sogni che sembrano sempre troppo lontani. Il pubblico lo segue in crescendo, fino all’ultimo pezzo che chiude il set tra urla e mani alzate.

Poi arriva il cantautore Emma e il festival prende una curva imprevista. Emma non gioca in difesa: il suo set è spigoloso, costruito dalle canzoni prodotte insieme al produttore Katoo, già al lavoro con Mahmood e altri. Via i filtri, spazio a un’elettronica mischiata a un emotrap, a una vocalità ruvida, quasi parlata. Il suo corpo diventa linguaggio: si muove, spinge, vibra con la musica. Le canzoni vengono smontate e ricostruite in modo viscerale. È una performance a tutti gli effetti: teatrale, sincera e destabilizzante.

E infine, Bladee. Il pubblico lo aspetta come si aspetta un’apparizione, con un misto di venerazione e curiosità. È il primo vero show in Italia per il rapper svedese, e lo si percepisce nell’aria: tra i fan con le hoodie della Drain Gang, il collettivo svedese che ha riscritto le regole dell’hip hop digitale, c’è l’emozione di chi sa di stare assistendo a qualcosa di irripetibile.

Bladee — all’anagrafe Benjamin Reichwald — è una figura cult, ma sfuggente. Cresciuto a Stoccolma, ex skater e visual artist, è emerso nei primi anni 2010 insieme a Yung Lean, Ecco2k e Thaiboy Digital, dando vita a un suono che ha anticipato molte tendenze attuali: l’emo rap, la cloud trap e l’estetica post-internet, tutto fuso in un universo sonoro malinconico e alieno. Bladee non è un rapper tradizionale: è un costruttore di sonorità. Le sue liriche sono frammentarie, viscerali, a volte mistiche. Il suo rapporto con la voce è filtrato, letteralmente, da un uso dell’autotune, che la rende cristallina e eterea. Quando compare sul palco non cerca l’interazione, non incita e non grida. Bladee sta nel suo mondo, e invita il pubblico a entrarci. La scaletta pesca da “Cold Visions”, il suo ultimo lavoro e da album precedenti come 333 o psykos. I suoni sono sospesi, larghi, ipnotici, i beat sembrano onde che si infrangono.

Il set è tutto giocato sul filo dell’allucinazione. Ci sono momenti più cupi e distorti, dove Bladee sussurra tra riverberi e delay, e momenti invece più “pop”, se così si può dire, dove le melodie si aprono e la voce si fa quasi angelica. Ma il mood non cambia mai: siamo in una dimensione rarefatta, dove il tempo si dilata e l’identità si dissolve. È una performance concettuale, a suo modo estrema, ma profondamente coerente.

Quello che Bladee ha portato al MI AMI non è stato un concerto, ma un esperimento estetico e sensoriale. E anche se il suo stile resta di nicchia per molti, è impossibile negare quanto abbia influenzato una generazione di artisti che oggi riempiono i palchi in Italia e altrove. I tre artisti saliti prima di lui — Azel, 18K, Emma — sembrano quasi i suoi “figli artistici”, cresciuti a suon di SoundCloud, Tumblr e anime glitchati.

Il MI AMI non si ferma qui. Dopo un Day 0 così intenso da sembrare già un climax, il festival prosegue con altri due giorni di live, incontri e visioni. E mentre il pubblico si sposta da un palco all’altro nella nuova area dell’Idroscalo, arrivano anche quattro nomi annunciati all’ultimo momento che promettono scintille.

Sangiovanni torna finalmente su un palco per la prima volta dopo una lunga pausa, portando dal vivo la sua rinascita iniziata con il singolo “Luci allo xeno”. Golden Years, producer romano che sta riscrivendo il suono indie-pop italiano, presenterà in anteprima “Fuori Menù”, il suo nuovo disco in uscita il 30 maggio con feat. del calibro di Calcutta, Coez, Fulminacci, Ariete, Frah Quintale e Franco126. Shablo arriva con un live tutto da scoprire, accompagnato da ospiti a sorpresa in un set che promette di diventare leggenda. Infine, i Patagarri, band milanese dall’energia incontrollabile, protagonisti a X Factor, invaderanno il parco in versione busker, a colpi di fiati e distorsioni. Il Day 0 era solo l’inizio. Il MI AMI è nel suo pieno.

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