Referendum 8-9 giugno, guida al terzo quesito. Meno flessibilità per le aziende che offrono contratti precari: cosa cambia se vince il Sì

Meno flessibilità per le aziende nello stipulare contratti a termine invece che rapporti di lavoro stabili, a tempo indeterminato. È l’obiettivo del terzo quesito dei referendum abrogativi in calendario per l’8 e 9 giugno. La Cgil, che ha promosso i quattro quesiti sul lavoro, punta a ottenere il ripristino dell’obbligo per il datore di lavoro di indicare una causale ogni volta che opta per un contratto precario di qualsiasi durata. Obbligo che il governo Meloni ha molto indebolito, introducendo deroghe la cui durata è stata via via estesa fino a dicembre 2025.
Cosa propone il referendum – Il quesito propone l’abrogazione della normativa, introdotta con il decreto Lavoro del primo maggio 2023, che consente alle imprese di fare assunzioni temporanee senza motivarle con ragioni valide, moltiplicando i contrattini di pochi mesi. Se vincesse il Sì, verrebbe abolita la possibilità di stipulare contratti a tempo determinato fino a 12 mesi senza causale e, per i contratti di durata compresa tra 12 e 24 mesi, non sarebbe più consentito che le causali siano definite dalla contrattazione aziendale o individuate dalle parti. Resterebbe consentito ricorrere al contratto a termine per sostituire lavoratori e lavoratrici assenti (per esempio in maternità). Secondo i contrari al referendum, le causali sono inutili “lacci” che ingessano il mercato e fanno aumentare le controversie legali.
Come funziona ora – Oggi, per effetto del decreto Lavoro e delle sue proroghe, un datore di lavoro che stipula un contratto a tempo determinato fino a due anni (o ne proroga uno precedente dopo il primo anno) può giustificarlo con “esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva”, che la norma prevede siano “individuate dalle parti”. Ma, data la disparità di potere contrattuale, è quasi sempre l’azienda a definirle. Inoltre, i contratti a termine possono durare fino a due anni senza causali nei casi previsti dai contratti collettivi stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi a livello nazionale, ma anche dai contratti aziendali sottoscritti da rsa o rsu. Che sono esposti al cosiddetto ricatto occupazionale: i rappresentanti dei lavoratori sono spesso disponibili a cedere su questi aspetti in cambio della promessa di future stabilizzazioni o dietro minaccia di ricadute sugli altri lavoratori.
La girandola di norme dell’ultimo decennio – Il decreto Lavoro del governo Meloni ha modificato la normativa precedente, ovvero il Jobs act riveduto e corretto dal decreto Dignità del 2018. La riforma promossa dal governo Renzi nel 2015-16 puntava a rendere il mercato più flessibile a vantaggio delle imprese: per farlo aveva consentito la stipula di contratti a termine della durata fino a 36 mesi senza causale, a patto che ogni contratto fosse prorogato non più di cinque volte e i precari non superassero il 20% del totale dei dipendenti dell’azienda, salvo diversa previsione dei contratti collettivi. A metà 2018 gli occupati a termine hanno superato i 3 milioni e il governo Conte ha risposto approvando il decreto Dignità, che ha reintrodotto l’obbligo di indicare una causale – esigenze temporanee, sostituzione di altri lavoratori o esigenze legate a incrementi temporanei e non programmabili dell’attività – per i contratti superiori a 12 mesi, limitandone la durata massima a due anni e riducendo a quattro le proroghe. Restavano molte eccezioni: per esempio i contratti nazionali, aziendali e territoriali potevano prevedere deroghe alla durata e al tetto del 20%.
Quanti sono i precari – Stando agli ultimi dati Istat, i lavoratori a termine in Italia sono 2,6 milioni, pari al 13% del totale dei dipendenti contro una media Ue ferma al 10% circa. Sono però diminuiti rispetto alla metà del quando 2018 avevano toccato quota 3 milioni, il 17% del totale. Dopo la fine dell’emergenza pandemica si è assistito in parallelo a un graduale, costante aumento dei lavoratori a tempo indeterminato, nonostante di solito le fasi di espansione economica vedano una crescita dell’occupazione flessibile. Resta pressante il problema dei lavoratori in part-time involontario: il 56% dei 4,2 milioni di lavoratori part-time italiani (dati 2023, i più aggiornati) non ha scelto quella forma contrattuale ma l’ha accettata o subìta per necessità o assenza di altre possibilità. Si tratta soprattutto di donne: il 15% delle lavoratrici ha un part-time non voluto, contro il 5% degli occupati. Lavorare poche ore comporta ovviamente stipendi molto bassi e contribuisce quindi alla forte incidenza del lavoro povero.