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Ultimo aggiornamento: 20:36 del 12 Maggio

“Noi bersagli di Israele, siamo rimasti per mostrare ciò che accade a Gaza”: il racconto dei giornalisti palestinesi

I raid di Israele hanno fin da subito preso di mira anche i cronisti, diventati bersagli militari
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Più di 200 giornalisti uccisi, centinaia di colleghi feriti o arrestati, nessun accesso per i media internazionali. A Gaza gli attacchi e i raid di Israele hanno fin da subito preso di mira anche i cronisti, diventati bersagli militari, con l’obiettivo di oscurare quanto veniva commesso dall’esercito e dall’aviazione israeliana e la tragedia palestinese. “L’obiettivo era far restare agli atti solo la verità delle veline militari e dei giornalisti embedded. Una strage nella strage che è un attacco al diritto di informare e di essere informati, con il chiaro scopo di impedire un equilibrato dibattito pubblico che parta dai fatti. Una situazione che chiede la mobilitazione di tutta la nostra categoria”, è stato l’appello con cui l’Associazione Stampa Romana ha organizzato il convegno “Gaza: Guerra all’Informazione“. Un’iniziativa alla quale hanno preso parte anche Safwat Kahalut, giornalista di Al Jazeera rifugiato in Italia con moglie e quattro figli, ma rimasto a Gaza fino a marzo 2024, e – in collegamento da remoto – Wael Al-Dahdouh, capo della redazione della stessa emittente qatariota, che nella Striscia ha perso dodici familiari.

“Non era e non è semplice per noi sapere che quando mettiamo il giubbotto con la scritta “Press”, diventiamo obiettivi militari di Israele. Ma ci chiedevamo: qual è l’alternativa? Se avessimo mollato nessuno avrebbe raccontato quello che avviene a Gaza. Come me, altri colleghi hanno perso tante persone della propria famiglia. Abbiamo pagato e ancora paghiamo un caro prezzo. Perché il dolore continua: poco fa ho saputo che mio nipote, di 16 anni, è stato ucciso. Un dolore che non si ferma. Ma il giornalismo è un mestiere sacro. Per questo non ci ritiriamo e restiamo lì per raccontarvi la verità, quello che sta accadendo”, è il racconto di Wael Al-Dahdouh. Anche Safwat Kahalut spiega come il dramma di Gaza continui, di fronte alla chiusura dei valichi portata avanti da parte del governo israeliano di estrema destra di Benjamin Netanyahu, che da oltre 65 giorni impedisce l’ingresso di ogni aiuto umanitario. “Non entra nulla, né cibo, né medicine. Il genocidio non è finito. Israele ha superato ogni linea rossa, non soltanto con i raid contro i civili, ma usando la fame come arma. Oggi la situazione è peggiorata ancora di più. Mio padre mi chiama ogni giorno dicendomi che non ha più medicine, manca la farina”, racconta.

E ancora: “Lavorare senza corrente elettrica, senza internet, comprando al mercato nero il gasolio per i generatori, era quasi impossibile. Tutto mentre dovevi anche cercare di mettere in salvo le famiglie, mettersi in coda per l’acqua e per il pane. Purtroppo dalla comunità internazionale non c’è stato alcun passo, non è riuscita a frenare il governo israeliano. Ma per noi giornalisti palestinesi questa sfida enorme è diventata non soltanto un dovere professionale, ma anche nazionale“.

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